Jacquot de Nantes: quando il cinema si fa "souvenir d'amour"
La Nouvelle Vague, Agnès Varda e Jacques Demy: ciò che resta dopo la perdita.
Mi accingo a scrivere e mi rendo conto di una cosa: sono esattamente undici anni che amo il cinema. Naturalmente quando parlo di cinema non mi riferisco ad una mera forma di intrattenimento e di svago (non che ci sia nulla di male in questo), piuttosto mi riferisco a una forma d’arte e di comunicazione, a ciò che solitamente è detto cinema d’autore.
Prima dei diciassette anni non sapevo cosa fosse, nonostante ne avessi già visti degli esempi. All’epoca il mio film preferito era L’attimo fuggente di Peter Weir del 1989, da studentessa di liceo classico cos’altro avrei potuto amare? Mi muovevo tra cliché e cult, guardavo film che davano in tv senza preoccuparmi di vederli sin dall’inizio né di terminarli, mi annoiavano i tentativi di cineforum che si proponevano a scuola durante le assurde settimane di cogestione, anche se poi i film andavo sempre a vederli: in quelle occasioni ne scoprii due straordinari American History X di Tony Kaye del 1998 e American Beauty di Sam Mendes del 1999 e mi convinsi, assurdamente, che i film più belli dovessero essere per forza americani.
Quanta ingenuità!
Il mio battesimo avvenne nel 2013 con un film uscito nelle sale dieci anni prima, ma parecchio in voga negli ambienti virtuali che frequentavo a quei tempi: fu The dreamers di Bernardo Bertolucci ad introdurmi al cinema. Ricordo ancora il palpito che provai osservando la passione di Isabelle legata al cancello della Cinémathèque française, il nodo in gola durante la cena in famiglia e lo scontro tra Théo e suo padre, soprattutto ricordo con chiarezza la scintilla che mi si accese quando per la prima volta comparvero alcuni fotogrammi di vecchi film in bianco e nero: fu una folgorazione. Quel giorno non scoprii soltanto il cinema, ma anche uno dei movimenti che l’hanno segnato: la Nouvelle Vague.
A quel tempo però non avevo ancora coscienza di cosa fosse stata la Nouvelle Vague né tantomeno di cosa avesse significato per il cinema, tuttavia iniziai a crearmi un gusto cinematografico che si basava principalmente sull’estetica e sulla quasi assenza di trama. Naturalmente recuperai tutto ciò che mi capitava in cui Louis Garrel avesse una parte (l’ho già detto che mi inserivo bene tra i cliché?) e tutto ciò che fosse francese e drammatico: ricordo che durante quelle incursioni cinematografiche incontrai anche la regia di Luis Buñuel con Belle de jour del 1967. Mi indirizzai sempre più verso il cinema francese degli anni Sessanta, malgrado riuscire a guardare film di quel genere fosse decisamente complicato (mi abituai infatti sin da subito a rinunciare al doppiaggio e accogliere i sottotitoli come una manna dal cielo), scoprii il cinema di Jean-Luc Godard con Une femme mariée del 1964 e iniziai a sognare i film, a quel tempo introvabili, di François Truffaut e Éric Rohmer.
A ventidue anni la mia briosa curiosità verso il cinema francese degli anni Sessanta venne ulteriormente alimentata, e finalmente definita, grazie al corso di Storia del Cinema all’Università che, proprio quell’anno, si proponeva di approfondire il movimento della Nouvelle Vague. Tra libri, lezioni e l’osservazione di moltissimi film, allenai il mio occhio da spettatrice e il mio senso critico capendo infine cos’è che tanto mi ossessionasse di quel tipo di film: la distanza tra cinema e letteratura si era assottigliata, i registi della Nouvelle Vague erano autori. Questi film in bianco e nero, poveri d’intreccio, intimi e riflessivi, ricchi di pathos, di silenzi densi e sguardi febbrilmente intensi mi ammaliavano per la loro vicinanza agli aspetti più belli e intimi della letteratura. Da quel momento fu impossibile tornare indietro. Mi innamorai di Hiroshima mon amour di Alain Resnais del 1959, I 400 colpi del 1959 e Jules e Jim del 1962 di Truffaut, Fino all’ultimo respiro di Godard del 1960.
A venticinque anni, dopo aver setacciato biblioteche e librerie alla ricerca di scrittrici lasciate in ombra (e quante ancora ho da scoprire!), ho pensato che nascosta tra quella sfilza di nomi maschili almeno una regista la Nouvelle Vague doveva averla avuta, e infatti la trovai: Agnès Varda.
«Ero la prima donna-autore. Dopo il mio mediometraggio La pointe courte, ero tutta sola in quella grande ondata della Nouvelle Vague che seguì, ero l’alibi, l’errore. Ma me ne fregavo, facevo i miei film e basta. Dopo ci sono state le registe della rivolta femminista. Ma è stato un fuoco di paglia, non mi sono lasciata intruppare. Però mi sono battuta perché le donne avessero ruoli tecnici e creativi come operatrici, scenografe. Per cui mi sono fatta la fama di femminista emmerdeuse.»
Mai mi sono sentita così scrutata nel profondo come quando ho conosciuto la sua Cléo (dal film Cléo de 5 à 7 del 1962), mai ho visto ritratte le contraddizioni dell’essere umano e del sentimento amoroso come in Le bonheur (in italiano tradotto Il verde prato dell’amore del 1965) e nel controverso Kung-Fu Master! del 1988, per non parlare del lirismo del suo sguardo anche quando documentaristico, come nei cortometraggi girati per la televisione Du côté de la côte del 1958 e Les Dites Cariatides del 1984.
Guardando il documentario sulla sua vita, Les plages d'Agnès del 2008, scopro un altro nome che non conosco, quello di Jacques Demy: trentadue anni d’amore, un matrimonio, un figlio e molteplici collaborazioni legavano i due registi, la cui storia viene interrotta troppo presto dalla scomparsa di lui a soli 59 anni. M’immergo nel cinema di Demy, mi lascio incantare dalla sua Lola del 1961 e mi sconvolgono la tenerezza e il magnetismo dei suoi musical (io, che raramente li sopporto) più noti, Les parapluies de Cherbourg del 1964 e Les demoiselles de Rochefort del 1967.
Il cinema di Varda è fatto di vita, quello di Demy invece d’artificio.
L’uno scarno, taciturno, ridotto all’osso, punta al nocciolo dell’esistenza, alla realtà documentaristica, quelli della regista sono film più narrativi che dialogici, la sua voce fuori campo che racconta è il magnifico fil rouge che attraversa quasi la sua intera opera. Quello di Angès Varda è un cinema impegnato dove poco si dice, ma tutto si mostra.
L’altro invece è ricco, denso, costantemente in movimento, pregno di musiche e suoni, balli, chiassosi colori pastello, personaggi fiabeschi (anche letteralmente se pensiamo a La meravigliosa storia di Pelle d’Asino del 1970 oppure a Il pifferaio di Hamelin del 1972), insomma, Jacques Demy nei suoi film sembra voler ricordare costantemente a chi guarda che il suo è un artificio, è arte, pertanto non è reale. Il regista camuffa da musical le sue pellicole impegnate, dove emergono i problemi del Paese e dell’umanità tutta.
Jacques Demy muore il 27 ottobre 1990, pochi giorni dopo la fine delle riprese di Jacquot de Nantes (in italiano Garage Demy, 1991), il film-documentario girato da Agnès Varda e basato sullo scavo nei ricordi e gli scritti di suo marito.
Demoni e meraviglie/ Venti e maree/ Il mare si è ritirato già in lontananza/ E tu/ Come un’alga dolcemente dal vento accarezzata/ Nelle sabbie del letto ti agiti sognando/ Demoni e meraviglie/ Venti e maree/ Il mare si è ritirato già in lontananza/ Ma nei tuoi occhi socchiusi/ Due piccole onde sono rimaste/ Demoni e meraviglie/ Venti e maree/ Due piccole onde per farmi annegare.
Jacques Prévert, Sabbie mobili
I versi di Prévert fungono da incipit ed explicit dell’opera, recitati dalla voce di Varda, mentre sullo schermo vengono proiettate onde, sabbia, alghe, poi la pelle di Jacques, gli occhi di Jacques, i capelli di Jacques, il maglione di Jacques, le mani e le braccia di Jacques, i pantaloni di Jacques. La cinepresa indugia sul suo corpo, ancora vivo, ancora per poco. Tenta di coglierne ogni millimetro.
Eppure Jacquot de Nantes non è un film romantico, non racconta la loro storia d’amore. Si tratta in realtà di un ritratto di Jacques bambino e ragazzo, di un film che mette in fila i suoi ricordi per poter spiegare il suo amore per il cinema e per i musical, la sua gioia e pacatezza anche nelle situazioni più complesse.
L’occhio di Varda come sempre si limita a mostrare la vita vera e così scopriamo che nei film di Demy si canta in continuazione perché era ciò che accadeva nella sua casa d’infanzia e nell’officina meccanica di suo padre, e quando per la comunione gli viene regalato un grammofono se lo porta sempre dietro. Jacquot è un bambino che ha avuto la fortuna di vivere, quella che si dice, un’infanzia felice, circondato da una famiglia amorevole e allegra, amici con i quali poter giocare liberi per le strade, frequentando spesso il teatro dei burattini prima e le sale del cinema poi. L’inasprimento della situazione politica e poi la Guerra vera e propria, mettono tutto a rischio: Jacquot e suo fratello si trasferiscono nelle campagne della Loira, lontani dalla famiglia e della vita di sempre. Tuttavia, si rivelerà questo una sorta di evento fortuito per il giovane Jacques che lì imparerà a manovrare un proiettore e scoprirà i corti di Charlie Chaplin. Al ritorno a Nantes, finita la guerra, la passione per il cinema diverrà sempre più bruciante, tanto da iniziare a girare i suoi primi cartoni animati, creando scenografie e personaggi nella soffitta di casa, ormai suo vero e proprio studio.
Terminata la visione del film ho sentito il cuore colmo di una strana gioia e gli occhi lucidi. Ho pensato a quanto dev’essere stato grande il loro amore, a quanta stima e quanto rispetto ci fosse tra loro.
Girare un film che racconta della giovinezza di tuo marito mentre lui ti è accanto e sta morendo: non basta l’amore per riuscire in questa impresa titanica, no, ci vuole di più.
Un rispetto profondo, la convinzione che l’arte possa dare la vita. Una curiosità vivace, il desiderio di conoscere tutto l’uno dell’altro, di far sì che neanche una briciola della sua esistenza venga sprecata o sia stata vana.
Varda ha voluto donare l’immortalità, alla persona Jacques e al regista Demy.
Un immenso souvenir d’amour.