Calvino e Pavese: narrazioni oblique sulla Resistenza
Riflessioni su "Il sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino (1947) e "La luna e i falò" di Cesare Pavese (1950).
La primavera porta inevitabilmente con sé un risveglio, vuoi per il verde che tinteggia i campi o per l’allungarsi delle ore di luce. Da un po’ di anni ormai per me primavera significa anche risveglio letterario, ritorno alle radici: il Novecento italiano mi chiama a sé e non posso ignorarlo. Ad aprile poi, avvicinandosi l’anniversario della Liberazione, sento l’urgenza di leggere libri che testimonino ciò che è stato. Negli scorsi anni mi sono dedicata ai testi di Cesare Pavese in primis, poi Renata Viganò, Natalia Ginzburg, Ignazio Silone, Carlo Cassola ed Elsa Morante: quest’anno ho deciso di ripartire dal principio e immergermi nella lettura di uno dei primi testi sulla Resistenza.
La Resistenza è stato un fenomeno storico, politico e sociale di enorme portata per l’Italia del secondo dopoguerra e, come sempre accade in questi casi, artisti e uomini di cultura hanno cercato il mondo per esprimere ciò che ha significato. In campo letterario è stato necessario far trascorrere un po’ di tempo da quegli avvenimenti, far decantare la temperatura delle esperienze vissute, tant’è che una fioritura preponderante di testi resistenziali vedrà luce perlopiù negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, salvo alcune importanti eccezioni: Uomini e no di Elio Vittorini del 1945, primo testo in prosa a narrare la Resistenza italiana, Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino pubblicato appena due anni dopo, La casa in collina di Cesare Pavese uscito nel 1948 e L’Agnese va a morire di Renata Viganò pubblicato l’anno seguente.
Di particolare interesse appare il testo di Italo Calvino, all’epoca un ventitreenne che aveva vissuto in prima linea l’esperienza partigiana e aveva potuto accogliere la fine della guerra come una vittoria quasi priva di bruciature1. Nonostante si tratti di uno dei primi libri editi di letteratura sulla Resistenza2, il giovane Italo pone al centro del suo romanzo un tema diverso da quello della lotta partigiana: difatti tutto ruota attorno al protagonista, Pin, il bambino sboccato e solitario del Carrugio Lungo sanremese.
Centrali nel testo sono le sue buffonaggini e le sue malinconie, le imprese compiute solo per piacere agli altri, le passeggiate lungo il sentiero dei nidi di ragno, le battute pungenti rivolte ai tedeschi e ai compagni dell’osteria, la difficoltà che ha nel comprendere gli adulti e l’impossibilità di trascorrere le giornate con i bambini come lui. Insomma, a farla da padrone è il senso di solitudine di Pin: Il sentiero dei nidi di ragno è un viaggio alla ricerca di un amico vero e leale.
Anche volendo osservare la scelta del paesaggio e delle ambientazioni manca la presenza di un campo di battaglia e di terreni di scontro, ci si limita ogni tanto a udire degli spari in lontananza. Centrali in quest’ambito sono la natura e, soprattutto la luce: Calvino cala dall’alto il lettore nella storia attraverso le ripetute immagini dei raggi di sole sui caruggi e sul terreno:
Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico.
Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo all’orina dei muli.
Anche quando ormai Pin è assieme a una banda partigiana le descrizioni paesaggistiche continuano ad essere poco inclini a un clima di guerra, anzi, appaiono ancora più idilliache:
[…] andando al mattino per i sentieri Pin dimentica le strade vecchie dove stagna l’orina dei muli, l’odore di maschio e di femmina del letto sfatto di sua sorella, il gusto acre dei grilletti schiacciati e del fumo che esce dagli otturatori aperti, il sibilo rosso e rovente delle frustrate dell’interrogatorio. Qui Pin ha fatto scoperte colorate e nuove: funghi gialli e marrone che affiorano umidi dal terriccio, ragni rossi su grandissime invisibili reti, leprotti tutti gambe e orecchie che ad un tratto sbucano sul sentiero e spariscono subito a zig zag.
Il tema centrale dell’opera sembra essere la condizione esistenziale di Pin, ma, come fa notare Mario Barenghi, si tratta di un disagio – ma forse bisognerebbe dire: trauma – provocato dall’impatto con la guerra, dalla brusca immersione in una dura realtà popolare, dall’esperienza della violenza partigiana3: ed ecco come, da aspetto marginale e obliquo della narrazione, la Resistenza muta in tema fondamentale ed essenziale. Pin senza la lotta partigiana non potrebbe esistere e i nidi di ragno non acquisterebbero tutta l’importanza che hanno.
Il titolo scelto da Calvino è difatti molto esplicativo, un simbolo potente ed efficace dell’intero racconto. Da un lato, come già accennato, si tratta di un luogo amato dal bambino protagonista, un territorio speciale dove desidera curare la sua solitudine4, dall’altro il sentiero dei nidi di ragno è il luogo in cui nasconderà l’arma che ruberà a un tedesco, il simbolo della sua lotta partigiana.
Un altro aspetto interessante di questo romanzo sulla Resistenza è che, salvo rare eccezioni, gli ideali partigiani non compaiono ed è assente ogni tentativo di eroicizzare gli uomini e le donne impegnati nella lotta. Basti pensare agli uomini dell’osteria dai quali Pin sente toccare per la prima volta questo argomento, poi i compagni della sua banda partigiana composta da scarti provenienti da altre formazioni, e anche il personaggio di Lupo Rosso, idolatrato da tutti, viene mostrato nelle sue contraddizioni e nei suoi difetti. La scelta di questi personaggi però non è casuale e viene spiegata con chiarezza al lettore nel IX capitolo attraverso le parole del generale Kim al compagno Ferriera5:
Cosa li spinge a questa vita, cosa li spinge a combattere, dimmi? Vedi, ci sono i contadini, gli abitanti di queste montagne, per loro è già più facile. I tedeschi bruciano i paesi, portano via le mucche. È la prima guerra umana la loro, la difesa della patria, i contadini hanno una patria. […] Poi, gli operai. Gli operai hanno una loro storia di salari, di scioperi, di lavoro e lotta a gomito a gomito. Sono una classe, gli operai. Sanno che c’è del meglio nella vita e che si deve lottare per questo meglio. […] Poi c’è qualche intellettuale o studente, ma pochi qua e là, con delle idee in testa, vaghe e spesso storte. Hanno una patria fatta di parole, o tutt’al più di qualche libro. Ma combattendo troveranno che le parole non hanno più nessun significato, e scopriranno nuove cose nella lotta degli uomini e combatteranno così senza farsi domande, finché non cercheranno delle nuove parole e ritroveranno le antiche, ma cambiate, con significati inaspettati. Poi chi c’è ancora? Dei prigionieri stranieri, scappati dai campi di concentramento e venuti con noi; quelli combattono per una patria vera e propria, una patria lontana che vogliono raggiungere e che è patria appunto perché è lontana.
[…] comune a tutti, un furore. Il distaccamento del Dritto6: ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi. Gente che s’accomoda nelle piaghe della società e s’arrangia in mezzo alle storture, che non ha niente da difendere e niente da cambiare. […] Perché combattono, allora? Non hanno nessuna patria, né vera né inventata. Eppure tu sai che c’è coraggio, che c’è furore anche in loro. È l’offesa della loro vita, il buio della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere cattivi.
Spostandoci dal paesaggio ligure a quello piemontese delle Langhe, un altro romanzo interessante sulla Resistenza è quello di Cesare Pavese, La luna e i falò, pubblicato nell’anno della sua scomparsa, il 1950.
Innanzitutto è opportuno ricordare che non si tratta dell’unico romanzo dell’autore in cui compaiono temi legati alla Resistenza e alla lotta partigiana, difatti pochi anni prima, nel 1948, era stato dato alle stampe La casa in collina, in cui vengono narrate le vicende di un professore torinese che sceglie di rifugiarsi in collina per evitare i continui bombardamenti sulla città, ma si ritrova travolto dalla Storia.
Appena concluso il libro di Calvino ho sentito il bisogno di rileggere Pavese, tornare a lui per riflettere sulla Resistenza: a diciassette anni conoscevo troppo poco del mondo per capirlo davvero, nonostante di certo il furore non mi mancasse.
All’inizio non avevo capito perché l’istinto mi suggerisse questo titolo piuttosto che quello del ‘48 dove il tema della Resistenza è senz’altro più centrale, ma mi sono bastate poche pagine per comprenderlo: Anguilla, il protagonista, è un reietto come Pin. Lungi da me far connessioni azzardate, ma il due personaggi - e, volendo, potremmo allargare il campo anche a Cinto - si somigliano nella loro difficoltà di stare al mondo, nella loro solitudine, nella loro condizione di orfani privi di radici profonde, nel loro sguardo intimo e compassionevole sulla natura che li circonda. Non è un mistero la copiosa presenza di immagini bucoliche ne La luna e i falò - peraltro già insite nel titolo che richiama le credenze contadine e la ciclicità dei lavori della campagna - dove compaiono alcune delle riflessioni più belle della letteratura sul concetto di radici:
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Come nel romanzo di Italo Calvino, anche qui la lotta partigiana non è centrale, anzi, la storia è situata alcuni anni dopo la Liberazione. L’Italia ha già un aspetto diverso, è già libera e nuova: per comprendere come sia diventata nel presente della narrazione è necessario però rivolgersi al passato.
In questo romanzo Cesare Pavese racconta la vicenda di Anguilla, ormai adulto, che dopo aver viaggiato molto in Italia e negli Stati Uniti - quanto dei versi de I mari del Sud si respira in queste pagine! - ritorna al suo paese sulle Langhe piemontesi e, osservando lo stato odierno delle cose, ricorda il suo passato assieme al suo vecchio amico Nuto. Quest’ultimo non si è mai allontanato troppo dalle sue terre ed è rimasto in paese durante tutto il periodo della guerra: è lui che racconta lo stato delle cose, è lui il vero personaggio politico de La luna e i falò.
Dal giorno della liberazione - quel sospirato 25 aprile - tutto era andato sempre peggio. In quei giorni sì che s'era fatto qualcosa. Se anche i mezzadri e i miserabili del paese non andavano loro per il mondo, nell'anno della guerra era venuto il mondo a svegliarli. C'era stata gente di tutte le parti, meridionali, toscani, cittadini, studenti, sfollati, operai - perfino i tedeschi, perfino i fascisti eran serviti a qualcosa, avevano aperto gli occhi ai più tonti, costretto tutti a mostrarsi per quello che erano, io di qua tu di là, tu per sfruttare il contadino, io perché abbiate un avvenire anche voi. E i renitenti, gli sbandati, avevano fatto vedere al governo dei signori che non basta la voglia per mettersi in guerra. Si capisce, in tutto quel quarantotto s'era fatto anche del male, s'era rubato e ammazzato senza motivo, ma mica tanti: sempre meno […] della gente che i prepotenti di prima hanno messo loro su una strada o fatto crepare. E poi? com'era andata? Si era smesso di stare all'erta, si era creduto agli alleati, si era creduto ai prepotenti di prima che adesso - passata la grandine - sbucavano fuori dalle cantine, dalle ville, dalle parrocchie, dai conventi.
Leggere romanzi che raccontano momenti critici e cruciali della storia italiana è una necessità che sono felice di provare, un’urgenza che sento doverosa. Leggere per studiare, per conoscere, per non perdere la rotta: anche la letteratura può diventare un atto politico, una presa di coscienza. Calvino, ai tempi del Sentiero comunista convinto, e Pavese, apolitico ma con evidenti idee di sinistra, hanno narrato il periodo della Resistenza non inserendola al centro delle loro narrazioni e senza idolatrarla, ma osservandola in maniera obliqua e critica. Tuttavia sono tempi che bisogna decidersi, o di là o di qua.7
Italo Calvino, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno: […] l’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità.
Giuseppe Petronio, Italia letteraria: Una letteratura, per lo più, non di letterati di mestiere, ma di uomini che, avendo preso parte diretta a quegli avvenimenti, volevano fermarli sulla carta, ora sotto forma di ricordi ora in modi inventivi, ora con foga polemica, ora con pudore scontroso, ora con immediatezza di scrittura, ora con uno scrivere svogliato, ma pur tale, però, che la cura dettaglio narrativo e l’attenzione allo stile servissero a mettere meglio in evidenza quella materia bruciante, non fossero pretesto per pagine di « bella » letteratura.
Doppiozero, Se gli esami di maturità cadono su Calvino, Mario Barenghi, 17/06/2015.
I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno: Ci sono strade che lui solo conosce e che gli altri ragazzi si struggerebbero di sapere: un posto, c’è, dove fanno il nido i ragni, e solo Pin lo sa ed è l’unico in tutta la vallata, forse in tutta la regione: mai nessun ragazzo ha saputo di ragni che facciano il nido, tranne Pin. Forse un giorno Pin troverà un amico, un vero amico, che capisca e che si possa capire, e allora a quello, solo a quello, mostrerà il posto delle tane dei ragni.
Germana Pescio Bottino, Calvino: Kim e Ferriera esprimono rispettivamente due posizioni sociali diverse ed indirizzate tuttavia allo stesso fine. Ferriera è l’operaio che ha dietro di sé un secolo di lotta per i salari e il progressivo movimento proletario nella rivoluzione industriale, e che agisce in base all’istinto di classe. Kim invece, che è stato un bambino ricco, poi un ragazzo timido, che discende dai “ grandi ” (e sereni) padri borghesi che creavano la ricchezza, non è sereno; poiché il ciclo della civiltà borghese, ricca di due secoli di valori e contraddizioni, sta per concludersi sotto la spinta delle nuove forze popolari. Kim e Ferriera sono non il punto di scontro, ma di incontro dei due filoni della stessa civiltà davanti a quella “ grande macchina delle classi che avanzano, la macchina spinta dai piccoli gesti quotidiani, la macchina dove altri gesti bruciano senza lasciare traccia ” che è la storia.
Si tratta del distaccamento in cui si trova Pin.
Cesare Pavese, La luna e i falò.