GDL La Sapienza delle contraddizioni - Lettera aperta
Il gruppo di lettura dedicato alla scrittrice Goliarda Sapienza nell'anno del centenario della sua nascita. Prima tappa: Lettera aperta.
Quella di Goliarda Sapienza è una vita che ben si presta alla scrittura autobiografica. Nata in una famiglia fuori dal comune in uno dei quartieri più malfamati di Catania, a diciassette anni abbandona l’isola per trasferirsi a Roma e studiare recitazione; lì partecipa alla Resistenza, fonda una compagnia teatrale sperimentale, recita al teatro e al cinema, collabora come aiuto regista e co-sceneggiatrice. Nel 1953 la perdita di sua madre la avvicina alla scrittura, tuttavia nello stesso periodo iniziano delle crisi depressive che la portano a tentare il suicidio: viene salvata appena in tempo e ricoverata. Ciononostante, l’esperienza nella clinica psichiatrica dove le viene praticato l’elettroshock e la successiva, fallimentare, psicoterapia aggravano le sue condizioni, così come la separazione da Alessandro ‘Citto’ Maselli, suo compagno da più di diciotto anni: un nuovo tentativo di suicidio le fa prendere coscienza di ciò che le sta accadendo e decide di provare a salvarsi nell’unico modo che conosce.
Non è per importunarvi con una nuova storia né per fare esercizio di calligrafia, come ho fatto anch’io per lungo tempo; né per bisogno di verità – non mi interessa affatto –, che mi decido a parlarvi di quello che non avendo capito mi pesa da quarant’anni sulle spalle. Voi penserete: perché non se la sbroglia da sé? Infatti ho cercato, molto. Ma, visto che questa ricerca solitaria mi portava alla morte – sono stata due volte per morire «di mia propria mano», come si dice – ho pensato che sfogarsi con qualcuno sarebbe stato meglio, se non per gli altri almeno per me.
Nel 1965 Goliarda Sapienza inizia a scrivere il suo primo testo autobiografico con l’intento di mettere ordine nella sua memoria dilaniata: nasce così Lettera aperta, edito nel 1967 da Garzanti.
Ancora una piccola premessa prima di addentrarci nell’opera.
Lettera aperta fa parte di un progetto più ampio, ovvero un’autobiografia in divenire composta da sei libri, fruibili però non solo come insieme unitario, ma anche separatamente. Ad essa Goliarda Sapienza dà il nome di autobiografia delle contraddizioni, titolo attraverso il quale l’autrice vorrebbe chiarire sin da subito a chi si appresta a leggere i suoi testi di non cercare verità o certezze, di non indagare sulla sua esistenza, ma di accogliere il dubbio e l’incoerenza, di accettare il suo diritto ad avere un segreto. Malgrado avrebbe dovuto trattarsi di un’autobiografia «in progress» alla quale aggiungere periodicamente una nuova lettera aperta riguardante il periodo direttamente successivo a quello precedentemente narrato, in realtà i libri si susseguono senza rispettare di volta in volta la cronologia dei periodi di vita narrati.
Appartenente al periodo analogico-introspettivo della scrittura autobiografica di Sapienza1, in Lettera aperta il passato dell’autrice viene rievocato e si svela attraverso una scrittura ricca di analogie che portano a digressioni, analessi e prolessi frequenti, facendo così addentrare il lettore in un vero e proprio labirinto di ricordi in cui si distinguono a fatica il tempo, l’ambiente e i personaggi.
ATTENZIONE: da qui in poi troverai spoiler, fermati se non hai terminato la lettura di Lettera aperta!
Lettera aperta racconta degli anni trascorsi a Catania, nel quartiere di San Berillo, sino alla sua partenza per Roma nel 1941, tuttavia la narrazione presenta diversi piani narrativi cronologicamente slegati tra loro: seguire lo spago dei ricordi che si ingarbuglia a più riprese è la grande sfida in cui il lettore si trova immerso sin dal principio.
L’incipit è una dichiarazione d’intenti che la scrittrice adulta, nel momento in cui sta scrivendo, fa al lettore: è il 1965, Sapienza vuole mettere ordine nella sua memoria distrutta, e non solo metaforicamente.
Oggi, 27 marzo, alle due di pomeriggio, sono riuscita a svuotare completamente questa cassapanca ed a metterla al sole – è primavera – perché si asciughi. Ho buttato tutte le parrucche, i nastri marciti, steso sul letto lo scialle di mia madre. I colori sono assortiti straordinariamente, ed intatti. Sta lì, non ne ho più paura. Il grido? Si è sperso nell’aria, la finestra era aperta e c’era molto sole. Penserò dopo a quel grido.
Il primo piano narrativo infatti è quello relativo al presente nel quale Sapienza rielabora i suoi traumi attraverso la scrittura, è lei che tiene in mano il filo della narrazione autobiografica: nell’explicit dell’opera, infatti, sottolinea che si tratta solo di una pausa e che presto tornerà a raccontare la sua vita.
Il secondo piano narrativo è occupato dalla Goliarda bambina, la piccola Iuzza, che trascorre la sua infanzia e gioventù a Catania negli anni Venti e Trenta.
In questo spazio viene narrata la sua formazione, intellettuale e amorosa, gli interrogativi sulla sua identità, sull’essere donna, la faticosa ricerca del proprio posto nel mondo. Iuzza vagabonda per le strade di San Berillo, nei cinema, nei teatri e all’Opera dei pupi, luoghi di cultura che la famiglia Sapienza-Giudice riteneva necessari quanto l’acqua e il cibo per sfamare il corpo. Frequenta la scuola pubblica per alcuni anni in maniera saltuaria: il suo percorso scolastico si conclude in quarto ginnasio quando assieme a suo padre brucia la divisa da giovane fascista che era costretta a indossare. Da quel momento in poi la formazione intellettuale di Iuzza è affidata al professor Jsaya, vero e proprio precettore che aveva abbandonato l’insegnamento per via delle sue idee antifasciste, mentre il fratello Ivanoe le consiglia delle letture utili per la sua formazione e lo zio Nunzio le fa conoscere la storia dell’isola e della famiglia Sapienza.
Più complessa la sua formazione affettiva: cresciuta in un ambiente nel quale l’amore veniva considerato con sguardo critico, a prendersi cura di lei sin dalla nascita è suo fratello Ivanoe, il quale si premura di farle letteralmente da balia, e non per mancanza d’amore da parte di sua madre Maria Giudice, ma a causa della fedeltà cieca di quest’ultima a un’ideale di altruismo irrealizzabile. Uno dei rapporti più complicati è proprio quello che ha con sua madre e fa di tutto per riceverne l’approvazione, per somigliarle, arrivando anche a rubarle il nome. Tuttavia, oltre ad essere oggetto d’amore, Maria Giudice è anche colei che censura l’amore, negando a Goliarda la possibilità di amare senza aver timore di questo sentimento:
Sapevo che era male quel matrimonio, e che la punizione sarebbe arrivata. Sapevo che mia madre non ne avrebbe più parlato. «Ero responsabile di quello che facevo»: non dovevo chiedere scusa né rifarlo. E non vidi più Nica. Non scesi più nel cortile per paura di vederla: avevo tanta voglia di abbracciarla. Tanta voglia che non potei fare a meno di spogliarmi davanti allo specchio: con le sue mani cercavo di ritrovare quel calore che lei mi comunicava nei giorni felici. Mi spogliavo, cercavo di abbracciarmi e di carezzarmi: ma quei due schiaffi mi colpivano e la lampadina si accendeva – dopo, nella penombra – costringendomi a cadere in ginocchio, sola, in mezzo alla stanza.
Lettera aperta racconta anche la ricerca da parte di una bambina della propria identità, identità che però non viene cercata all’interno del suo essere, ma all’esterno. Il primo modello è, come per tutte le bambine, quello materno, poi desidera diventare: un brigante come quello della leggenda di Musolino; una religiosa come suor Maria; una sacerdotessa come Norma; una sediara come Anna; una pupara come Insanguine. Iuzza sceglie come modelli tutte queste figure e si cimenta nei vari mestieri alla spasmodica ricerca del suo posto nel mondo, ma falliscono tutti i tentativi: è interessante però notare come, in realtà, lei avesse già trovato la sua strada, ossia quella della recitazione.
Il terzo piano narrativo, l’ultimo e il più intenso, è quello che ci porta al 1949, l’anno del ritorno in Sicilia e del funerale paterno. Non è tuttavia l’unica veglia funebre alla quale assistiamo durante la lettura: nel labirinto analogico emergono infatti anche le morti del professor Jsaya, del suocero Ercole Maselli, del sinistro Carmine, il gioco della veglia funebre e poi la morte di Nica. Un susseguirsi di veglie funebri che conducono, tutte, alla morte di Peppino Sapienza.
La presenza più affascinante e magnetica in questo primo testo autobiografico è, a mio parere, proprio quella paterna: Goliarda Sapienza racconta di un rapporto profondamente complesso e irrisolto, un grande amore culminato in odio.
Prima di diventare l’avvocato, Peppino Sapienza è protagonista dei ricordi più felici e più dolci che l’autrice narra nelle pagine di Lettera aperta: è lui che la prende in braccio e la tranquillizza dopo che Ivanoe la taccia di essere una bugiarda ed è lui che sorride sempre portando una ventata di leggerezza in quella casa dove la giovane Goliarda si sente schiacciata dal peso delle responsabilità e della grandezza delle idee materne; egli è maestro dell’arte della gioia, è mediatore tra la casa e il mondo esterno, è colui che accompagna Goliarda per le strade e i vicoli del quartiere alla scoperta delle botteghe, al teatro, al cinema, alla Playa, facendole scoprire alcuni dei piaceri della vita.
Sono stata felice molti giorni della mia vita. Ma perché trascuro di raccontarvelo, perché metto l’accento sulle pene che mi sono capitate? Ma come dirvi le ore di abbandono felice che ho avuto con mio padre in giro per i vicoli, come dirvi il sapore delle patate calde che la donna tirava fuori da sotto la coperta, con cautela, il sapore delle crespelle a mezzanotte dopo il cinema? – il sapore aspro dell’orgoglio di inghiottire le cozze crude col limone come un vecchio marinaio, o di mangiare all’osteria vicino a lui, circondata da marinai veri, solo uova sode ed olive nere? Perché non so dire tutto questo? Perché non so dire dell’ansia vitale che mi afferrava entrando nel piccolo teatro dei pupi del commendatore Insanguine? Perché non so dire del suo abbraccio, dell’ammirazione per la sua forza fisica, della noia dolce di quei lunghi viaggi in balilla per le montagne calve dell’interno. Sciacca, Enna, Canicattì, Ragusa, Modica, Scicli […]. Mi regalò la sua rosa di gelsomino – era dopo mezzanotte, quelle rose di gelsomino fiorivano dopo la mezzanotte – e non pioveva più. «Vieni: il cinema è perduto, ma ti porto alla Playa. Ceniamo al ristorante sulle palafitte come una signora ed un signore che non siamo. Facciamo finta, e poi partiamo con le ultime lampare e peschiamo tutta la notte».
Tuttavia questi sono ricordi che appartengono, come scrive poco dopo, a quando ancora non lo odiavo: le ragioni di quest’odio non sono esplicitate nell’opera, ma certo una di queste si trova nella risposta a una domanda che accompagna l’intera narrazione. A chi apparteneva, a chi era rivolto quel grido, «Non la stuprare!», che ossessivamente si affaccia tra le pagine del testo? Sin dalle prime pagine l’autrice scrive «Cerco ancora oggi di non capire, ma so a chi era rivolto» e soltanto verso la fine dell’opera decide di rivelarlo al lettore: è sua madre che urla disperata a Peppino di non stuprare Licia e Olga, le sorellastre di Goliarda.
… Anche oggi, come ieri, ho aspettato piangendo, seduta sulla soglia: stasera, ieri sera, tre sere fa, un anno? So solo che non ho capito. Non sono una donna di volontà, è stata una debolezza e prendetela come tale. Non volevo parlarvi di Anna, come non voglio parlarvi d’amore. Ma non sempre si possono portare a termine i piani, i progetti. Basta un nome, un’ora di sole, un albero, un viso intravisto in un cantone che a dispetto delle tue decisioni l’emozione ti afferra con le sue branche di polipo e non puoi che essere passiva sotto il suo abbraccio molle e risucchiante. Devo subire il suo abbraccio, e se non saprò morderlo in testa, affonderò con lui: non ho altra strada ormai: o morderlo alla testa o affondare con lui.
Lettera aperta insegna che non esistono modi alternativi per mettere a tacere il dolore se non affrontandolo, lasciando che esso ci attraversi e ci metta di fronte alla realtà, anche quando fa troppo male.
Scoperchiare il proprio passato può essere pericoloso, ma è terapeutico: con la seconda tappa del GDL scopriremo quanto grazie alla lettura del libro della cura, Il filo di mezzogiorno.
Così definito da Mariagiovanna Andrigo, L’evoluzione autobiografica di Goliarda Sapienza: stile e contenuti in «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza. Percorsi critici su una delle maggiori autrici del Novecento italiano a cura di Giovanna Providenti.