Lo «scavo storico che ognuno di noi è chiamato a fare su se stesso»
Riflessioni su "Cassandra a Mogadiscio" di Igiaba Scego (2023).
Ci sono dei libri che mi chiamano con insistenza dal primo momento in cui vengo a sapere della loro esistenza: Cassandra a Mogadiscio è uno di questi.
Il motivo?
Non ne ho idea, è una questione di chimica, di pelle.
A poche pagine dall’inizio, sento fortissimo il desiderio di lasciarmi cullare dalle parole di Igiaba, dalle vicende della famiglia Scego. Scoprendo la Somalia, Mogadiscio. La Storia che l’ha distrutta negli anni Novanta, l’onta che è costretta a portare. E poi quello che era prima, prima della dittatura di Boccagrande1 durata dagli anni Settanta.
Scopro soltanto adesso, a ventotto anni, che nell’ultimo decennio del Novecento è stata rasa al suolo una città, cancellata una cultura lunga secoli. Gli anni Novanta mi fanno pensare anche alla guerra, sì, ma a quella che colpì Sarajevo2. Della Somalia non sapevo nulla, se non dove collocarla, grossomodo, geograficamente. Adesso so che è il naso del continente africano, una nazione bagnata in lungo da spiagge che si affacciano sull’Oceano Indiano, definita in passato “la perla” per la bellezza del suo mare e le sue architetture candide. Una terra anche piena di boscaglia e prati verdi adatti al pascolo, che odora di vento e sabbia, pioggia e fango. Dove il contatto con la natura circostante è un elemento vitale per la popolazione e gli animali hanno una dignità non sacrale, ma a noi occidentali sconosciuta.
Scopro solo adesso, a ventotto anni, che la Somalia e l’Italia hanno avuto contatti profondi. Potevo intuirli, in fin dei conti, dal momento che confina con l’Etiopia, una nazione che ci ha visti carnefici durante la metà degli anni Trenta, ma di certo non avevo idea che i somali avessero dovuto combattere contro i loro vicini al fianco degli italiani. Nemici senza colpe. Eppure i legami tra le due nazioni di Igiaba Scego sembrano attecchire da tempi lontani: l’autrice racconta di una chiesa a Mogadiscio costruita sul modello di una sita a Cefalù, di conventi e di suore italiane che insegnano nella capitale somala. Torno indietro tra i miei ricordi scolastici: non trovo niente, nessun legame. Allora cerco su Google e tra i primi risultati c’è un articolo che nell’abstract dice:
Il legame storico che unisce la Somalia all'Italia nacque già nella seconda metà dell’Ottocento, quando l'Italia manifestò per la prima volta interesse per il Corno d’Africa. A seguito della costituzione della prima colonia, quella eritrea, gli italiani riuscirono a insediarsi lungo le coste della terra dei somali, dove costituirono avamposti commerciali. Il controllo effettivo dell’intera colonia giunse soltanto con l’avvento del regime fascista mediante una dura repressione militare. Al termine della Seconda guerra mondiale le Nazioni Unite affidarono all’Italia uno speciale protettorato sul paese: l’Amministrazione fiduciaria italiana sulla Somalia (Afis).3
Mi chiedo perché di questo è così raro che se ne parli durante le lezioni di storia, ma la verità è che conosco la risposta. In ogni caso, a circa un terzo del libro arriva: l’autrice racconta com’è stato per i suoi genitori emigrare, quanto è cambiata l’Italia nel loro sguardo. Ritrova quei pensieri e quelle sensazioni in un romanzo del 2005 ormai introvabile, scritto in lingua italiana dallo scrittore somalo Garane Garane, intitolato Il latte è buono. E scrive:
Camminando per le strade di Roma si sente di secondo in secondo più solo, quasi abbandonato, decisamente maltrattato. Nessuno lo ama. Nessuno sa che un tempo l’Italia ha colonizzato la Somalia. E men che meno sanno il seguito, e cioè che per altri dieci anni l’Italia è stata insignita dalle Nazioni Unite del compito di insegnare la democrazia alla Somalia. E che per la Somalia quell’investitura si è tradotta in ulteriore tragedia, ulteriore kasaro, sotto gli antichi colonizzatori mai pentiti dei loro atti.
L’Italia nel dopoguerra voleva dimenticare. Dimenticare di essere stata fascista, dimenticare di essere stata carogna, dimenticare di aver perso la guerra, dimenticare di essersi alleata con la persona sbagliata, dimenticare di aver creduto a una menzogna, a un fascismo di cartapesta. Se si voleva creare un paese nuovo, una repubblica italiana, si doveva, questo era l’ordine arrivato al cuore del paese, dimenticare il passato. Somali compresi.4
Igiaba5 non conosce la Somalia se non per qualche racconto da parte dei suoi genitori, aabo e hooyo6: è nata a Roma, in una capitale profondamente diversa da quella abitata dai suoi fratelli, che conoscerà soltanto quando la sua infanzia sarà agli sgoccioli. La prima volta che si reca a Mogadiscio ha nove anni, è con la sua hooyo. Fatica ad abituarsi a quel luogo e a quel modo di viverlo così distante da quello che conosce dalla nascita, ma ne resta presto estasiata: anche quella è la sua casa e anche lì c’è la sua vita.
Quella di Mogadiscio era per me una casa grande. Aveva molte stanze. Un giardino che mi sembrava una foresta. Alberi. Era una villa. Piuttosto malmessa però. Bisognosa di ristrutturazioni. Ma grande, grandissima. Con un bianco rosato che le conferiva un afflato intimo. Mi piacevano da matti la cucina con i fornelli a carbone e il bagno grande esterno.7
Incantevoli le descrizioni degli spazi, sembrano appartenere ad un’epoca d’oro. Eppure no, quella Mogadiscio non è del tutto reale. Quella Mogadiscio è frettolosa e artefatta. Hooyo lo sa, perché quando Mogadiscio è morta era lì con lei.
La sera di San Silvestro, mentre a Roma la sedicenne Igiaba si prepara per una festa che durerà sino all’alba, a Mogadiscio scoppia la guerra civile. Il telegiornale italiano nomina la Somalia, la ragazza è incuriosita: non era mai accaduto prima. Si affaccia nel salone, c’è il suo aabo davanti alla tv. Sembra pietrificato. In preda al Jirro. Ciononostante le parole che le rivolge la rassicurano e lei andrà alla festa, vivendo la sua ultima notte da adolescente, preoccupandosi dell’aspetto e della cotta che ha per M.. Dopo sarà costretta a diventare di colpo adulta. E a conoscere il Jirro anche lei, mentre la sua hooyo si difende dalla devastazione e dalla morte.
Jirro, suono dolce o stridente in base a come si pronuncia: se la j è come quella del pronome personale francese je, oppure se più simile al suono italiano gh dell’aggettivo ghiotto, ad esempio. Non so ancora come pronunciare questa parola, devo scoprirlo: in entrambi i casi però il suono mi affascina.
Il Jirro è un male che colpisce, una crepa nel corpo e nello spirito. È la malattia, traduce Scego. Eppure avverte: questa traduzione non basta. E per salvarsi dal Jirro servono degli stratagemmi. È una frattura genetica, forse atavica per il popolo somalo. Esiliati dappertutto, sino in Finlandia, in Canada, Australia. Dovunque.
Cassandra a Mogadiscio è una lettera aperta a Soraya, figlia di Moh, nipote di Igiaba, che vive in Canada. Non conosce l’italiano, a stento il somalo. Non è in grado di conversare con sua nonna, la hooyo di Igiaba, se non con pochissime parole somale. Promette di imparare l’italiano per poter parlare in intimità, senza l’ingombro di interpreti, con la nonna. Nel frattempo sua zia Igiaba le sta scrivendo questa lettera lunghissima e temporalmente schizofrenica.
“La guerra non può toglierci la vita che è stata,” diceva i primi tempi dopo essere tornata, con ancora la mitraglia nelle orecchie che la faceva tremare a ogni clacson e accasciare al suolo a ogni fuoco d’artificio. “Le storie devono rimanere con noi. Sono stata chiara?”
Lo scavo storico, genealogico che si compie in queste pagine serve anche per sopperire la mancanza di archivi storici di Mogadiscio: distrutti anche quelli, tutti, durante la guerra del 1991. Non è soltanto un’operazione autobiografica, non si tramanda soltanto la storia della famiglia Scego, ma è una testimonianza dell’intera città prima del suo disfacimento.
Igiaba Scego descrive la Somalia geografica, la Somalia linguistica. La Somalia dall’odore di curcuma e cannella, delle note inebrianti del tè, del suono delle fronde al vento, dell'a convivenza armonica con gli animali. La Somalia urbana di aabo, la Somalia boscosa di hooyo abitata accanto ai suoi amati dromedari. La Somalia dove quella dell’infibulazione era una norma e ancora oggi una pratica non del tutto dissolta.
Per infibularla fu chiamata una donna piuttosto anziana. “Di lei ricordo solo gli occhi,” mi ha detto hooyo. “Erano opachi. Ci vedeva poco.” […] quell’ajuza, quella vecchia comare, pur non vedendo i contorni, la infibulò. E lo fece male. […] “Al secondo taglio,” mi ha detto, “la ajuza non vedendoci bene mi ha affettata come un cotechino. È stato penoso. Urlavo. La kurkurei mi teneva per le spalle. Aveva una presa forte. E qualcuno, non so chi, cercava di tenermi le cosce aperte. Ricordo solo l’immensa pena. Non avevo nemmeno più lacrime da piangere. Solo un rantolo secco che usciva roco dalla mia bocca esausta.”
Non è una narrazione edulcorata del mondo di cui lei e Soraya sono originarie. Ma neanche una narrazione catastrofica: è limpida, precisa, sincera, una narrazione a cuore aperto.
Ho impiegato due settimane per concludere Cassandra a Mogadiscio. Ho letto ogni giorno, ma non volevo lasciarlo andare. Questo libro mi ha insegnato tante cose, e non mi riferisco soltanto agli eventi storici che hanno attraversato la Somalia e il suo rapporto con l’Italia. La penna di Scego mi ha messo di fronte a delle verità che avevo timore di conoscere, mi ha fatto riflettere su me stessa, è stata una seduta di autoanalisi per il modo in cui mi muovo nel mondo e nell’intimità. Mi ha scossa, enormemente.
Tutta tremante e con gli occhi gonfi leggo le ultime pagine, i ringraziamenti. Scopro che la copertina di questo libro è anch’essa speciale - ma non scriverò il perché, voglio che lo scopriate come un dono inaspettato, com’è accaduto a me.
Il cuore batte forte, la voce s’inaridisce.
Nient’altro da dire: è giunto il momento di pensare.
Siad Barre.
Magistralmente raccontata nel romanzo di Margaret Mazzantini, Venuto al mondo (Mondadori, 2008). Consiglio anche i racconti di Miljenko Jergović raccolti in Le Marlboro di Sarajevo (Bottega Errante, 2019).
Michele Pandolfo, La Somalia coloniale: una storia ai margini della memoria italiana, «Diacronie. Studi di storia contemporanea» n. 14 (2013). Clicca qui per leggere l’articolo.
Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio, p. 152-153.
Mi permetto di chiamare l’autrice per nome soltanto in quanto, trattandosi di un testo autobiografico, questo è il nome della ‘protagonista’.
Rispettivamente il padre e la madre in lingua somala.
I. Scego, Cassandra a Mogadiscio, p. 121.