Magnetismo e repulsione nel romanzo di Ottessa Moshfegh
Riflessioni su "Il mio anno di riposo e oblio" di Ottessa Moshfegh.
Sul disgusto
Nel 1929 viene pubblicato un breve saggio dal titolo Der Ekel, ovvero Il Disgusto1. L’autore è il filosofo ungherese Aurel Kolnai, il quale indaga a fondo questo sentimento complesso e paradossale che ogni essere umano è portato a sentire di fronte ad alcune situazioni, immagini, suoni, odori, sapori.
In primo luogo, Kolnai definisce il disgusto come una reazione di difesa o di disapprovazione che si riferisce a ciò che è vivo. Si tratta di un’impressione istintiva e primordiale, spesso fisiologica.
Il filosofo riconosce una corrispondenza tra il disgusto e l’angoscia data la comune simultaneità dell’intenzionalità e dello stato, il grado approssimativo di primordialità, il carattere dell’attitudine difensiva, e inoltre, continua, tutto ciò che provoca disgusto potrebbe essere fattore responsabile di angoscia. Il paradosso del disgusto sta nel fatto che, più un qualcosa provoca questa reazione, più siamo attratti da essa: siamo infatti portati ad analizzare l’oggetto del nostro disgusto, ad osservarlo, ad immergerci nel suo movimento o nella sua durata nonostante la resistenza che proviamo. Questo accade perché l’oggetto del disgusto è un qualcosa che percepiamo come fastidioso e non minaccioso, anzi, il soggetto che prova disgusto si pone inconsciamente in una posizione di superiorità rispetto all’oggetto: nel provare disgusto si prova anche un certo invito, una macabra attrazione.
Distingue poi tra il fisicamente disgustoso e il moralmente disgustoso: nel primo caso annovera elementi come la putrefazione, gli escrementi, le secrezioni corporee, lo sporco, alcuni animali come gli insetti, i ratti e i serpenti (perlopiù per il loro modo vischioso, appiccicaticcio e molle di stare al mondo), i cibi avariati, i corpi nudi di persone anziane, malate e/o deformi; nel secondo caso invece troviamo il disgusto da saturazione per una vitalità cresciuta troppo e in modo squilibrato, che si agita incessantemente in un recinto chiuso, il disgusto dato da una vitalità smodata o fuori luogo, spesso associata a una sessualità disordinata e al disgusto dell’intellettualità al posto sbagliato, all’arroganza e all’autocompiacimento, infine il disgusto per la menzogna, la corruzione, il tradimento, la meschinità, infine il disgusto per tutte quelle forme di “mollezza” morale.
Aurel Kolnai evidenzia, inoltre, che esiste un legame tra il disgusto e la tensione verso la morte: è vero che spesso ciò che è disgustoso non è minaccioso, come detto in principio, ma può essere nocivo (come ad esempio ingerire sostanze putrefatte o cibi avariati, avvicinarsi troppo a insetti pericolosi…). Il disgusto può avvicinare alla non-vita senza però portare alla morte vera e propria. Anche la stessa attrazione sopracitata deriva dalla tensione verso la morte: l’oggetto che provoca disgusto ci affascina perché, spesso, contiene in sé la vita e la morte e le mostra entrambe da vicino (come nel caso di un corpo putrefatto, o malato, o anziano):
La smorfia della morte presente in ciò che è disgustoso ci rammenta la nostra propria affinità con la morte, la nostra sottomissione alla morte, il nostro segreto desiderio di morte: non dunque, come il teschio e la clessidra, l’ineluttabilità puramente esistenziale della morte […], ma il nostro essere essenzialmente sudditi della morte, il senso di morte della nostra stessa vita vita, il nostro consistere di materia destinata alla morte, si potrebbe dire fradicia di morte, pronta alla decomposizione.
Il disgustoso non tiene in mano alcuna clessidra, ma ci mette di fronte agli occhi uno specchio deformante. Non però il teschio, con la sua arida eternità, ma proprio ciò che mai in esso troveremo: la sua grondante marcescenza. 2
Sull’oblio
Durante la lettura del romanzo di Ottessa Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio, mi sono sentita costantemente invasa dal disgusto: il mio, provato davanti alle pagine, quello della protagonista, nei confronti della vita e delle emozioni, quello della sua migliore amica Reva, ossessionata dai corpi e dal cibo, quello della psichiatra Tuttle, disgustata dal dolore che dovrebbe curare.
Come ha ben spiegato Aurel Kolnai, disgusto e attrazione vanno di pari passo, difatti questo libro è stato per me respingente e magnetico: innanzitutto perché lo stile di Moshfegh è meravigliosamente letterario.
Succedevano un sacco di cose a New York, come sempre, ma nessuna toccava la mia vita. Era questo il bello di dormire, la realtà si distaccava e mi arrivava nella mente in modo casuale come un film o un sogno. Era facile ignorare quello che non mi riguardava. I lavoratori della metropolitana in sciopero. Un uragano che era passato di lì. Non importava. Sarebbero potuti arrivare gli extraterrestri, un’invasione di locuste, e io me ne sarei sì accorta, ma non mi avrebbe dato nessuna preoccupazione.3
La trama è molto semplice: nel 2000, a New York, una giovane donna benestante e molto attraente, decide di trascorrere un intero anno della sua esistenza a dormire, andando incontro a una ibernazione volontaria che serviva a preservarmi4. Ad aiutarla in questa decisione c’è la sua psichiatra, la dottoressa Tuttle, trovata frettolosamente sulle Pagine Gialle ed ignara della condizione psicologica della sua paziente: grazie agli psicofarmaci contro l’insonnia - e non solo - che le prescrive, il sonno perpetuo è abbastanza assicurato.
Nonostante possa apparire un romanzo statico a giudicare dalla sinossi, il dinamismo non manca grazie a un personaggio nevrotico e singolare, Reva, migliore amica della protagonista.5 Conosciute al college e profondamente diverse tra loro, il legame che le unisce sembra essere fatto più di invidia e necessità che di affetto: certo non manca solidarietà tra le due, tuttavia intrisa da un certo pragmatismo. O almeno è ciò che si evince dal presente della narrazione: del passato ci è dato sapere quasi nulla e del futuro sarà impossibile.
Cosa spinge questa giovane donna a desiderare ed affrontare un anno di riposo e oblio?
Le motivazioni che ci vengono mostrate non sembrano affatto valide.
Moshfegh dà alla sua protagonista un lavoro che dovrebbe essere interessante, in una Galleria d’arte, ma che si rivela votato totalmente al mero guadagno economico e per nulla interessato alla cultura. Nelle pagine dedicate alla vita lavorativa emerge chiaramente il fisicamente disgustoso: nella Galleria la fanno da padrone animali impagliati, spazzatura ed escrementi. Il disgusto legato alle secrezioni e alle entità tangibili è presente anche nella vita amorosa della giovane donna, impegnata in una relazione altalenante e poco soddisfacente con un uomo viscido e manipolatore, dal quale però fatica a prendere le distanze. È per lui che decide di mettere in pausa la sua vita, dice, per dimenticarlo. Eppure questa risposta sembra fin troppo semplice.
L’Enciclopedia Treccani definisce così l’oblio: a. Dimenticanza (non come fatto momentaneo, per distrazione o per difetto di memoria, ma come stato più o meno duraturo, come scomparsa o sospensione dal ricordo); b. In psicologia, processo naturale di perdita dei ricordi per attenuazione, modificazione o cancellazione delle tracce mnemoniche causato, genericamente, dal passare del tempo tra l’esperienza vissuta e l’atto del ricordo […]. Stando a questa definizione comprendiamo facilmente come una storia d’amore - o, sarebbe più corretto dire, una storia di sesso - finita male non possa essere degna di un lavoro così faticoso e potenzialmente irreversibile.
Disgusto, angoscia, attrazione, tensione di morte: il coma in cui cerca di cadere è molto diverso dal suicidio. Sceglie la non-vita, ma non la morte.
In un’intervista per il Guardian l’autrice racconta:
I’m interested in the family system as a place where people have their roles. And it’s very hard to shift out of a role without everything falling apart.6
Il mio anno di riposo e oblio è un romanzo in cui la famiglia è inserita in uno spazio obliquo: non pervade il centro della narrazione come accade con le paturnie di Reva, o con l’ossessione farmacologica della giovane e della sua psichiatra, oppure l’odio verso l’ex. Eppure i fantasmi genitoriali, spesso silenti e celati, sono presenti, come una melodia costante: a noi lettori è dato conoscere soltanto gli istanti precedenti la loro morte.
Forse l’oblio tanto desiderato riguarda proprio la presenza-assenza della figura paterna e, soprattutto di quella materna.
Immaginai il giorno del funerale di mio padre - mi ero spazzolata i capelli davanti allo specchio con addosso il mio vestito nero, e mi ero staccata le pellicine fino a farle sanguinare, ricordavo come mi si era appannata la vita mentre scendevo le scale e per poco non inciampavo, i lampi di foglie autunnali che mi sfrecciavano accanto mentre portavo mia madre alla cappella dell’università con la sua Trans Am, lo spazio tra noi che si riempiva di nastri aggrovigliati di fumo azzurro pallido delle sue Virginia Slim, lei che diceva di non aprire la finestra perché il vento le avrebbe scompigliato i capelli.
Nessuno sfogo.7
Le successive parti in corsivo indicano la citazione e/o la riformulazione di passi tratti da: Aurel Kolnai, Il Disgusto, Christian Marinotti Edizioni, 2017.
A. Kolnai, Il Disgusto, p. 95.
O. Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio, p. 13.
O. Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio, p. 15.
Reva è affetta bulimia ed è ossessionata dal corpo: nulla di sconvolgente, purtroppo, per una ragazza degli anni Duemila. Invidia la bellezza e la magrezza priva di sforzi della sua amica, la sua condizione economica favorevole, la buona famiglia da cui proviene: che sia rimasta orfana a vent’anni sembra essere un dettaglio di poco conto.
The Guardian, ‘My “sad girl” fans concern me’: Ottessa Moshfegh in conversation with Carmen Maria Machado, 2/07/2022.
O. Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio, pp. 121-122.