GDL La Sapienza delle contraddizioni - Il filo di mezzogiorno
Il gruppo di lettura dedicato alla scrittrice Goliarda Sapienza nell'anno del centenario della sua nascita. Seconda tappa: Il filo di mezzogiorno
Citto che corre in lacrime per le strade di Roma; gli infiniti corridoi di maioliche bianche abitati da donne angoscianti; la vecchia pazza della Pesca di O’Neill; i campi di grano e le onde placide della passione; l’orecchio teso di Giovanna-Arianna; la scrittura come cura: leggere Il filo di mezzogiorno significa immergersi nell’acqua macchiata dall’inchiostro di polipo, affogare e poi galleggiare nel mare di ricordi confusi, lasciarsi inondare da frammenti di storie e immagini sfocate, tentare amaramente di trovarci un senso.
Nella prima tappa del Gruppo di Lettura, quella dedicata a Lettera aperta, sono brevemente riassunte le vicende biografiche di Goliarda Sapienza sino al 1964-1965: per orientarsi al meglio all’interno di quest’opera è necessario conoscerle1, nonostante abbandonarsi al ritmo composto dall’autrice possa donare un’esperienza di lettura inappagabile. Come ascoltare un brano di musica classica, con feroci violini alla Wagner intervallati da dolci notturni di Chopin.
La stesura dell’opera, seconda parte della sua autobiografia delle contraddizioni, prende avvio subito dopo la pubblicazione di Lettera aperta, scritta sotto lo stesso impulso terapeutico, e riprende la narrazione precedente tramite il racconto, puntuale e sincero, delle sedute di psicoanalisi che l’hanno impegnata dal 1962 al 1965. Il filo di mezzogiorno viene pubblicato nel 1969 dalla casa editrice Garzanti e, malgrado non raggiunga il successo sperato, segna uno spartiacque importante nella vita di Sapienza, finalmente conscia delle sue capacità di scrittrice2.
ATTENZIONE: da qui in poi troverai spoiler, fermati se non hai terminato la lettura de Il filo di mezzogiorno!
Sin dall’esergo emerge lo stretto legame con Lettera aperta, insieme a molti dei temi presenti e all’atmosfera, cupa e disturbante, che circonda l’opera:
Non andare tra le viti nel filo di mezzogiorno: è l’ora che i corpi dei defunti, svuotati dalla carne, con la pelle fina come la carta velina, appaiono tra la lava. È per questo che le cicale urlano impazzite dal terrore: i morti escono dalla lava, ti seguono e ti fanno smarrire il sentiero e: o morirai di sete fra gli sterpi disseccati dal sole – sterpo secco pure tu – o penserai sempre a loro smarrendo il senno.
Ancora una volta, Sapienza lascia al lettore una dichiarazione d’intenti: la necessità di tornare indietro per andare avanti, come scrive nelle pagine successive. I cortei funebri che la guidavano nel primo libro non sono del tutto scomparsi, restano i morti, due anime importantissime: quella di Nica e quella di Maria. Nonostante sia forte la voglia di ignorarne la presenza e il dolore, Goliarda ormai sa che non c’è altra via d’uscita dalla sofferenza: deve attraversarla, altrimenti ne morirà oppure impazzirà.
La pazzia, o meglio l’insanità mentale, è il tema principale del Filo di mezzogiorno, osservata e affrontata attraverso più punti di vista. In primo luogo, l’autrice segue un processo di cura attraverso la scrittura stessa a seguito di una diagnosi di disturbo depressivo e dei tentativi suicidi3, dunque compare nel presente della scrittura; inoltre il racconto delle sedute di psicoterapia occupa la maggior parte del testo, con tanto di descrizioni e interpretazioni dei sogni; infine il disturbo psichico è presente anche nella figura materna, che la giovane Goliarda utilizza inconsciamente come caso-studio per il suo provino alla Regia Accademia d’Arte Drammatica di Roma.
Difatti, sin dall’infanzia l’autrice nota i segni dello squilibrio mentale che consuma pian piano sua madre, Maria Giudice, i quali si aggravano proprio durante il trasferimento a Roma. Circa vent’anni dopo Sapienza prova un dolore e una confusione simile a quelli materni e, terrorizzata all’idea di essere impazzita anche lei, scopre di soffrire di una forte depressione.
La confusione del pensiero del paziente psicoanalitico è perfettamente ricalcata dallo stile utilizzato da Goliarda Sapienza in quest’opera, ancora una volta analogica-introspettiva4, sottolineata dalla presenza di frasi frammentarie, dalla preponderanza di segni d’interpunzione come i punti di sospensione e ‘catene’ di due punti, dall’impianto perlopiù dialogico tuttavia privo di indicazioni sul parlante - tanto da incontrare dialoghi in cui compare più di un interlocutore, appartenenti a tempi e luoghi differenti.
Il filo di mezzogiorno è un testo affascinante dal punto di vista psicologico perché mette a nudo diversi comportamenti del paziente in terapia: la resistenza al cambiamento, il rifiuto della diagnosi, la dissociazione, la facilità e l’inaccettabilità della ricaduta. Al contempo, quello tra Sapienza e lo psicoanalista Majore è un rapporto particolare, che si risolverà con l’abbandono della professione di lui: per gli aspiranti psicoanalisti il romanzo appare come una sorta di vademecum di errori da evitare.
Ma perché il rapporto tra i due è particolare?
Perché, alla fine, l’analista impazzisce?
Perché l’altro tema di fondamentale importanza in quest’opera è l’amore.
Goliarda Sapienza e il dott. Ignazio Majore si innamorano, nel romanzo e nella vita. La questione diventa fortemente problematica dal momento che, mentre la scrittrice riconosce il suo sentimento e lo esplicita temendo le implicazioni che potrebbero insinuarsi nel processo di cura, lo psicoanalista rifiuta di guardare in faccia la realtà e tranquillizza la sua paziente spiegandole che si tratta di mero transfert. Ma la realtà è ben diversa: Sapienza e Majore si amano intensamente, carnalmente. Le parole scelte dall’autrice per descrivere il loro amore sono dense di una bellezza e di un lirismo panico, rimandano alle loro radici comuni:
Lo guardavo e non avevo vergogna, sentivo sotto il suo sguardo di avere le braccia le spalle il seno… non avevo vergogna e potevo chiedere e guardarlo… ora il suo viso si apriva davanti a me, potevo leggere i colori di quel viso, le ombre i prati le distese di campi verdi su, su verso la montagna, giù il degradare del verde delle vigne a terrazze, giù giù fino a che quel verde si fondeva con verde più scuro del mare di settembre… ore le sue efelidi erano una caduta di sabbia calda, l’ultimo calore d’estate trattenuto dalla sabbia… il calore degli ultimi bagni… il mare era già un mare d’inverno freddo e duro ma rotolandosi nella sabbia ci si scaldava a quell’ultimo calore d’estate che persisteva impigliato alla rena come un ricordo un rimpianto di calura… ora le sue ciglia erano boschi d’ombra, le sue occhiaie grotte che rifrangevano il sole dello sguardo in verdi scuri, verdi teneri, grigi, viola… la bocca schiudeva un pozzo d’acqua… acqua di pozzo fresca, e profumata di profondità, una sorgente scaturita dal fondo della lava di mille e mille anni fa? Per questo sicuramente era così fresca e profumata di roccia… non sapevo che la saliva disseta… non ebbi più sete.
Dopo gli appassionati abbracci e i focosi baci, lui, che le aveva promesso di curarla dal suo essere un’abbandonica, l’abbandona di punto in bianco e si rifiuta di rispondere alle lettere, alle telefonate, le chiude la porta in faccia quando suona alla sua porta, diviene scontroso finché Goliarda non cade in coma dopo un nuovo tentativo suicida. Come testimoniano le Lettere e biglietti del volume pubblicato nel 2021 da La Nave di Teseo, lei aveva cercato il suo aiuto fino all’ultimo, ma invano:
Roma, 16 ottobre 1965
Caro Majore,
non mi sarei mai fatta viva con lei se non avessi saputo da Citto quello che è successo, ma questo mi libera dal ruolo di “paziente” e dato che l’amo e non posso vivere senza di lei sono costretta a chiederle da donna a uomo di spiegarmi cosa significa questa sua sparizione che mi appare, oggi, disumana e incomprensibile. Non le scrivo perché lei si faccia vivo o altro. Sa che non rientra nel mio modo di essere usare trucchi e tranelli. Le scrivo solo per sapere e non cadere in una disperazione più profonda. […]
L’amore appare dunque come esperienza nociva in quest’opera, ma non soltanto. Nel Filo di mezzogiorno è narrata anche una delle storie d’amore più belle, a mio avviso, del Novecento italiano: quella tra Goliarda Sapienza e Alessandro “Citto” Maselli.
[…] fuggivamo insieme;... il suo braccio intorno alla mia vita mi guidava, il suo fiato diceva fiabe, mi guidava per le strade sicuro, raccontando..."Citto dov'è che m'hai trovata?" "Be', è stato un caso, un vero caso, non sapevo che fare quella mattina e decisi di andare alla Rinascente a comprare dei lapis colorati americani che avevo visto, avevo pochi soldi ma speravo che mi sarebbero bastati e così entrai tutto contento, lo sai quanto mi eccita entrare nei grandi magazzini e comprare tutte quelle cosette che poi si rivelano assolutamente inutili, con pochi soldi ti riempiono le braccia di pacchetti e questo dà un senso di ricchezza, e ti fa sentire un signore. Ma quella mattina sapevo cosa comprare, quelle matite mi avevano affascinato, erano grosse, non ne avevo viste così prima, ma avevo pochi soldi e così per prolungare la gioia mi misi a girare per gli stand: era una buona occasione per curiosare. Se non hai soldi non puoi entrare, ti senti sospettato, ma quei pochi soldi mi davano la sicurezza di fermarmi a mio agio: mi fermavo dappertutto e osservavo e su un banco vedo tante scatoline di cellofan legate con un nastrino, ogni scatola aveva il nastro di un colore differente, fra queste la mia attenzione fu subito attratta da una più piccola delle altre, aveva un nastro rosa così tenero... e prendendola chiesi alla commessa: 'Cos'è?' 'Legga, ce l'ha gli occhi, mi pare! E che si crede che siamo qui per dare informazioni? Se si dovesse dare informazioni a tutti..?’ Aveva ragione. C'era tanta di quella gente, sempre a correre su e giù, che diritto avevo che si occupasse di me. Lo sai che detesto quelli che se la pigliano coi camerieri, i commessi, sì insomma quelli che vogliono assolutamente imporre i loro diritti di avventori, come mio padre... non si può andare in un ristorante che... be', lasciamo stare e torniamo a quella scatolina: la volto e dietro c'è scritto: Iuzzetta tipo lusso, cresce facilmente in tutti i climi purché sia nutrita di carezze e baci. Particolarità: timidezza, orgoglio siculo, lagrima facile, dolcezza, forza fisica, distrazione, assoluta mancanza del senso del denaro, infruttuosa ma anche economa. Possibilità di sviluppo: attrice, buffona, aiuto regista, ballerina, scrittrice. 'Quanto costa?' 'Cinquanta lire' Era troppo, la posai, non mi sarebbero bastati i soldi per le matite. Ma appena mi allontanai, quel nastro rosa mi pare ebbe un sussulto e così tornai indietro e al diavolo le matite e intascai quella Iuzzetta e me ne andai in giro tutto contento... certo subito, appena rassicurata di essere nella mia tasca e non più in quello stand squallido, in mezzo a estranei, cominciò a farsi sentire e qualsiasi cosa facessi, con chiunque stessi parlando, dovevo, per non farla piangere, mettere la mano in tasca e accarezzarla... ma si quietava subito...” Mi quietavo subito... affrontavo la gente... le sale di doppiaggio paurose e maleodoranti di fumo marcito e di fiati stantii di secoli... l'odore di bisturi e pus di quella clinica, le mani di vetro di quel medico che frugava nelle piaghe sotto le mie ascelle, nel collo... li affrontavo sapendo che anche stavo nella tasca di Citto che a quell'ora doveva essere da Zavattini, con la sicurezza che qualsiasi discorso o conversazione, per importante che fosse, se mi mettevo a piangere lui mi avrebbe accarezzata nel fondo della sua tasca che ormai era per me la mia casa...
I ricordi aventi come protagonista Citto sono sempre pregni di dolcezza e premura: con lui Goliarda non teme nulla, può essere sé stessa più di quanto lei stessa pensi di potersi permettere. Difatti leggendo Il filo di mezzogiorno scopriamo che è grazie alla spinta datale da Maselli che Sapienza inizia a scrivere perché lui per primo riconosce il valore di quella poesia scritta frettolosamente durante una nottata insonne e gettata nel cestino prima che arrivasse il giorno. Citto la salva da entrambi i tentativi suicidi, la porta via dalla clinica dove le stanno eliminando la memoria a furia di elettroshock, l’ascolta e la conforta quando gli confessa di essersi concessa al terapeuta.
Piange incessantemente quest’uomo nel vedere la sua amata consumata dalla malattia e lei, con quel poco di appiglio alla realtà che le rimane, pensa che può affrontare tutto, ma non la sofferenza che sta procurando al suo amato. Particolarmente toccante il momento in cui Goliarda Sapienza si risveglia dal coma e, vedendo Maselli davanti a sé - nonostante fossero ormai separati -, crede, o meglio desidera, di aver partorito un loro bambino: Citto crolla, il dolore è troppo forte. Allora, nel momento in cui Goliarda comprende perché si trova in quel letto d’ospedale e lui è al suo fianco, sa che l’unica cosa da fare ormai è pronunciare quel: “Niente Citto, solo grazie.”
Vorrei continuare a scrivere ancora molte cose sul Filo di mezzogiorno, testo ricco di suggestioni e stupori, ma è giunto il momento di fermarsi.
Carissima folla di visi ignoti, il nostro viaggio nell’autobiografia delle contraddizioni continua: ci ritroviamo il mese prossimo, tra le pagine di Io, Jean Gabin.
Nella tappa precedente del GDL La Sapienza delle contraddizioni scrivevo: “Nata in una famiglia fuori dal comune in uno dei quartieri più malfamati di Catania, a diciassette anni abbandona l’isola per trasferirsi a Roma e studiare recitazione; lì partecipa alla Resistenza, fonda una compagnia teatrale sperimentale, recita al teatro e al cinema, collabora come aiuto regista e co-sceneggiatrice. Nel 1953 la perdita di sua madre la avvicina alla scrittura, tuttavia nello stesso periodo iniziano delle crisi depressive che la portano a tentare il suicidio: viene salvata appena in tempo e ricoverata. Ciononostante, l’esperienza nella clinica psichiatrica dove le viene praticato l’elettroshock e la successiva, fallimentare, psicoterapia aggravano le sue condizioni, così come la separazione da Alessandro ‘Citto’ Maselli, suo compagno da più di diciotto anni: un nuovo tentativo di suicidio le fa prendere coscienza di ciò che le sta accadendo e decide di provare a salvarsi nell’unico modo che conosce [la scrittura].”.
Non è un caso che proprio in questo periodo comincerà la stesura del suo capolavoro, L’arte della gioia.
Entrambi narrati nel Filo di mezzogiorno: il primo, quello che la porterà in clinica e poi nello studio dello psicoanalista, e il secondo, quello tentato a seguito dell’abbandono da parte dell’analista stesso.
Come in Lettera aperta, vedi la tappa precedente per capirne di più.