GDL La Sapienza delle contraddizioni - L'università di Rebibbia
Il gruppo di lettura dedicato alla scrittrice Goliarda Sapienza nell'anno del centenario della sua nascita. Quarta tappa: L'università di Rebibbia.
I corridoi lunghi e stetti, l’agorà del piccolo cortile esterno, i salotti intellettuali come quello di Suzie Wong, il tavolo posizionato in corridoio che funge da mercato. Bisognerebbe fermare la fantasia per non cedere alle sirene carcerarie, eppure non è affatto semplice: Rebibbia è una città, bella e viva come San Berillo.
L’università di Rebibbia, quarto testo dell’autobiografia delle contraddizioni di Goliarda Sapienza, nasce a seguito dell’esperienza carceraria dell’autrice. Dopo una discussione con una sua amica facoltosa, le ruba dei gioielli preziosi e li vende sotto falso nome, utilizzando la carta d’identità della sorella di Maselli, Modesta, che non a caso porta lo stesso nome della protagonista dell’allora sfortunato romanzo L’arte della gioia. C’è chi ha voluto vedere nelle ragioni di questo gesto mero risentimento verso l’amica, chi ha parlato di un’abile mossa commerciale, chi invece ci ha visto un tentativo di emulare sua madre, ma la vera ragione non ci è data conoscerla e forse neanche Sapienza, nel momento in cui ruba e lascia tracce dietro di sé, è cosciente del perché del suo gesto: l’unica sua certezza è la volontà di andare in carcere.
Il 4 ottobre 1980 viene portata a Rebibbia, ma l’esperienza carceraria è per lei motivo di gioia. Lì infatti riscopre la felicità di vivere dopo la delusione e la sofferenza procuratale dal suo romanzo rifiutato e incompreso, riscopre sé stessa dopo essersi imborghesita, conosce personalità originali e nuove rispetto al suo ambiente e compie una vera e propria educazione affettiva.
Uscita dal carcere non perde i contatti con le detenute e comincia subito a scrivere un’opera in cui narrare non solo della sua esperienza carceraria, ma anche quella delle altre donne prigioniere: il progetto di partenza si modifica man mano, dando vita così a L’università di Rebibbia, pubblicato nel 1983 da Rizzoli.
Grande differenza rispetto ai testi autobiografici precedenti, in questo libro quella narrata è una storia recente e ciò permette una narrazione molto più chiara e coerente dal momento che non si tratta più di compiere una pesca a strascico tra i suoi ricordi. Tuttavia anche qui compaiono momenti in cui il passato fa capolino: Sapienza percepisce sé stessa come una bambina – d’altronde il carcere regredisce all’infanzia – ed è interessante l’associazione analogica che nasce non più da una parola o un viso, ma da un suono, quello del silenzio minaccioso rinchiuso nel breve spazio d’una macchina come questa che le fa tornare alla memoria ciò che ha vissuto sotto i tedeschi, o ancora quello della chiave nella serratura che le evoca ricordi ancestrali: convento, segreta, cappella mortuaria, ripostiglio buio dove da bambina ti chiudevano.
Con L’università di Rebibbia prende avvio il secondo periodo della scrittura autobiografica dell’autrice, quello espressionista-interattivo1, caratterizzato da un taglio documentario, più simile ad una testimonianza, un’inchiesta socio-antropologica nella comunità deviante. Lo stile appare asciutto ed essenziale, denso di descrizioni e scevro dai lunghi excursus introspettivi ai quali Sapienza ci aveva abituati, non più un monologo dell’autrice con il lettore, piuttosto un dialogo continuo. Difatti, dopo il furto e l’esperienza carceraria, è forte l’urgenza di di dare spazio all’altro e interagire con esso: al centro dell’Università di Rebibbia non c’è Goliarda Sapienza, ma le sue compagne detenute.
Grazie alla sua natura corale, L’università di Rebibbia si inserisce all’interno della letteratura penitenziaria, come attesta l’autrice stessa in una lettera inviata al suo editore Sergio Pautasso:
A proposito di Rebibbia, le invio una grande gioia che quel libro mi ha donato. So che sarà motivo di soddisfazione anche per lei. Come vede la sua decisione di pubblicarlo fu giusta: non capita tutti i giorni che un libro di narrativa entri a far parte di una qualsivoglia letteratura specializzata, in questo caso penitenziaria.
ATTENZIONE: da qui in poi troverai spoiler, fermati se non hai terminato la lettura de L’università di Rebibbia!
L’università di Rebibbia si apre con un tono narrativo che, da ironico, subito cade nel tragico (qui puoi trovare la lettura dell’incipit), tanto che l’incarcerazione richiama alla memoria gli anni della guerra e della sindrome depressiva, identificata con quelle che definisce sirene carcerarie:
Quando mi sveglio il sole non c’è più. Al suo posto una luce biancastra da cesso pubblico spande una specie di aurora boreale. Non riesco a muovere gli arti: il desiderio di richiudere gli occhi, non fare più un gesto, è immenso. Ecco le sirene carcerarie che tornano all’attacco: hanno lunghi capelli bianchi di luna e mani algose. Abbandonarsi a loro, rifiutare l’acqua, il cibo, e lasciare che gli altri – finalmente – se la sbrighino loro con questo corpo che non fa che richiedere sforzi, gesti, appetiti insopportabili.
Presto però il tono dell’opera si modifica e torna ironico, quasi leggero, quando, dopo la prima notte trascorsa nella cella d’isolamento, inizia a conoscere le altre detenute. Inizialmente non ha molta fortuna e, a causa degli abiti borghesi e del portamento raffinato, viene scambiata per una spia, tuttavia a fine giornata conosce Giovannella, primo volto amico, una ragazza madre, di famiglia povera e problematica, che si fa incarcerare unicamente per poter abortire.
La natura di testimonianza e di denuncia del libro compare sin da subito in quest’opera corale dove i personaggi, man mano che compaiono sul testo, si svelano attraverso i loro discorsi, e tramite il linguaggio compongono un ritratto vivido e sfaccettato della società carceraria. Non si tratta più di una rimembranza, non c’è più una “gerarchia” tra i personaggi: ne L’università di Rebibbia il rapporto con l’altro è primario, anzi, necessario.
Soffermiamoci brevemente sul concetto dell’altra necessaria, espressione che deriva dallo studio della filosofa femminista Adriana Cavarero, la quale postula la necessità della presenza di una figura altra da sé per poter davvero conoscere la propria identità e la propria storia personale.
Come ha potuto Ulisse piangere per l'effetto rivelativo del racconto biografico, se egli stesso è in grado di narrare la sua autobiografia? Perché, come già succedeva a Edipo e qualsiasi siano le circostanze della nascita, il significato dell’identità è sempre affidato al racconto altrui della propria storia di vita? […] Esso consegue al fatto che la categoria di identità personale postula sempre come necessario l’altro. Prima ancora che un altro possa rendere tangibile l'identità di qualcuno raccontandone la storia, molti altri sono stati infatti spettatori del costitutivo esporsi dell’identità medesima al loro sguardo.2
Difatti è nel rapporto con le detenute che Sapienza si scopre, sono loro ad essere al centro della narrazione: Giovannella, Suzie, Marcella, Roberta e le altre. L’università di Rebibbia si configura come una sorta di alfabetizzazione emotiva della scrittrice, la quale incontra tra i corridoi asfissianti del carcere romano un’umanità nuova ed eterogenea, che riporta alla memoria i vicoli catanesi che abitava da bambina.
Un altro elemento che mette in luce l’esperienza di detenzione è l’infantilizzazione delle carcerate: il carcere regredisce all’infanzia, scrive Sapienza, e nel suo corpo tornato bambino è finalmente libera dalle costrizioni sociali del mondo esterno. Soltanto adesso Goliarda Sapienza è pronta a compiere la sua educazione affettiva attraverso il rapporto con l’altra necessaria, come si ravvisa chiaramente nell’incontro con Suzie Wong:
E poi la sua risata scalda, e così parlando stiamo percorrendo chilometri a passo di bersagliere senza notare la noia di quel muro sempre uguale che ci segue in pieno sole. Anche lei è grata alla sorte che le ha fatto incontrare qualcuno col quale il parlare non è solo una battaglia corpo a corpo. La piccola cinese già mi conosce. Come tutte qua è approdata al linguaggio profondo e semplice delle emozioni, così che lingue, dialetti, diversità di classe e di educazione sono spazzati via come inutili mascherature dei veri moventi (ed esigenze) del profondo: questo fa di Rebibbia una grande università cosmopolita dove chiunque, se vuole, può imparare il linguaggio primo.
La cella di Suzie Wong è uno dei posti centrali del romanzo poiché funge da salottino intellettuale dov’è possibile incontrare tutte le detenute politiche di Rebibbia, discorrere con loro sorseggiando un tè caldo in un ambiente pulito e accogliente: ci si dimentica quasi si trovarsi in carcere e Sapienza gode pienamente di quella vivacità culturale tanto da credere di aver finalmente trovato l’unico potenziale rivoluzionario che ancora sopravvive all’appiattimento e alla banalizzazione quasi totale della società in cui viviamo. Interessante constatare come gli incontri in questa cella appaiano molto simili a quelli dei gruppi di autocoscienza nati in seno al femminismo degli anni Settanta, malgrado l’autrice affermi chiaramente di non apprezzarli per via del tono luttuoso e vittimistico dei discorsi. Nonostante Sapienza utilizzi parole dispregiative nei confronti del femminismo - anche nel precedente Io, Jean Gabin, nelle interviste e in diversi passi dei suoi taccuini -, emerge con forza la gioia dello stare fra donne e non sono assenti riflessioni sulla condizione femminile:
Il fatto è, Goliarda, che noi donne reggiamo meglio il sistema carcerario. Certo, questo è possibile perché abbiamo un passato di coercizione e qui in fondo troviamo uno stato di cose che non ci è nuovo: il collegio, la famiglia, la casa… Sappiamo ancestralmente usare le mani, distrarci con mille lavoretti […] Certo, il carcere a noi donne risveglia tutti i lati «femminili» che stiamo cercando di seppellire, il carcere forse ci vizia, ci fa regredire […] Ma io dico: facciamo bene noi donne ad affossare tutte le «qualità» che i secoli di schiavaggio hanno sviluppato in noi?
Rebibbia è per Sapienza un’eterotopia3, un luogo altro regolato da leggi imperscrutabili e oniriche, mutanti. Lo spazio carcerario assume forme di volta in volta differenti, si trasforma tramite consuetudini la cui decifrazione non è immediata, ma comprensibile solamente dopo aver scoperto le abitudini che lo abitano.
La descrizione attenta dell’architettura di Rebibbia, maggiormente presente nella parte iniziale dell’opera, risulta utile a sottolineare la negazione della libertà che si sperimenta all’interno delle carceri, tuttavia presto quest’idea viene meno e la dialettica tra il dentro come prigionia e il fuori come libertà si ribalta completamente. Nella seconda parte dell’opera il carcere viene descritto come un luogo di assoluta libertà, una libertà pazzesca, impensata, dove ognuno può trovare la propria strada, ad ognuno è riconosciuto il proprio talento ed è inoltre il luogo adatto in cui scoprire i veri ideali di amicizia e sorellanza. A Rebibbia non è necessario nascondere nessun aspetto del proprio essere, chiunque può mostrarsi liberamente nelle sue brutture e pulsioni primigenie, è possibile esercitare il libero arbitrio anche nei confronti della morte.
Sorprendente in tal senso è la scoperta della sindrome dell’affezione carceraria che prende chiunque abbia vissuto per un certo periodo in carcere, facendogli desiderare di tornarci:
– Povera Annunciazione, fa di tutto per autoconvincersi che è felice di uscire, ma non è vero. Lei sta bene qua, presto tornerà, ha la sindrome carceraria… l’affezione al carcere… È molto diffusa. Ci si affeziona a questo modo di vita. […] Vedi, qui la giornata è così piena di avvenimenti che alla fine diviene come una droga… Si torna a vivere in una piccola collettività dove le tue azioni sono seguite, approvate se sei nel giusto, insomma riconosciute. Tutte capiscono perfettamente chi sei – e tu lo senti – in poche parole non sei sola come fuori…
Cari lettori e care lettrici, è giunto il momento di abbandonare le celle di questa università, ma non Rebibbia: passeggeremo ancora con Goliarda e le altre per la periferia di Roma con il secondo libro in cui racconta dell’esperienza carceraria, Le certezze del dubbio.
Così definito da Mariagiovanna Andrigo, L’evoluzione autobiografica di Goliarda Sapienza: stile e contenuti in «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza. Percorsi critici su una delle maggiori autrici del Novecento italiano a cura di Giovanna Providenti.
Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione.
Si tratta di un concetto mutuato dal filosofo Michel Foucault, con il quale si indicano i contro-spazi, ovvero degli spazi assolutamente altri rispetto a quelli solitamente vissuti, nei quali vige una scansione del tempo anch’essa differente rispetto a quella solitamente vissuta, spazi legati al passaggio, alla trasformazione, alla fatica di una rigenerazione.