GDL La Sapienza delle contraddizioni - Io, Jean Gabin
Il gruppo di lettura dedicato alla scrittrice Goliarda Sapienza nell'anno del centenario della sua nascita. Terza tappa: Io, Jean Gabin.
I vicoli di San Berillo, l’antro del puparo Insanguine, il cinema Mirone, via Buda, la piazza centrale dove si erge l’elefantino, la Playa: la bellezza di Catania risplende in Io, Jean Gabin.
La Civita, grande quartiere! che dico, grande città nella città dove tutto ti poteva accadere e dove tutti trovavano il modo d'imbrogliare, rubare, creare, competere, e anche guadagnarsi il pane onestamente se onesti si nasceva... grande Civita dalle straduzze intagliate nella lava, colma di personaggi vivi, acuti e saettanti fra teste di meduse, draghi alati, leoni, elefanti scolpiti anch'essi nella lava ma vivi della vita muta e perenne della scultura. Questa vita tracciata senza interruzione da basso a basso, da balcone a balcone, di giorno taceva ma la notte col muoversi delle fiamme dei lampioni intrecciava storie di passione, di delitti e di gioie improvvise.
Terzo libro dell’autobiografia delle contraddizioni, scritto nel 1979 ed edito solamente nel 2010 da Einaudi, con questo testo Goliarda Sapienza ritorna all’infanzia catanese, compiendo un salto verso il passato rispetto a quanto narrato nel precedente Il filo di mezzogiorno, riprendendo l’ambientazione e i personaggi di Lettera aperta. Nonostante i numerosi punti di contatto e la continuità della materia narrata, Io, Jean Gabin si distacca nettamente dalle opere precedenti in particolare per la sua forte struttura narrativa, con una trama centrale ben delineata e uno sviluppo cronologico chiaro degli eventi, malgrado anche qui non manchino digressioni.
Sapienza ormai ha accettato i fantasmi del suo passato e ha trovato finalmente la giusta distanza dalla quale poter osservare e raccontare la sua formazione e la sua infanzia. Tuttavia Io, Jean Gabin nasce a seguito di un momento di forte tensione per l’autrice: ha da poco concluso L’arte della gioia, romanzo che la consacra ai suoi stessi occhi come una scrittrice valida, ma al contempo sta ricevendo numerosi rifiuti editoriali, e inoltre è presa da una violenta nostalgia della sua isola.
Nata e cresciuta a Catania nel quartiere di San Berillo (qui denominato come il quartiere Civita, realmente esistente e tra i più antichi di Catania), Goliarda Sapienza vi farà ritorno soltanto nell’estate del 1979, dopo circa trent’anni di lontananza, in occasione di un viaggio a Palermo, presso la famiglia del marito Angelo Pellegrino. Il ritorno ai suoi vicoli però porterà a una tremenda delusione: nel 1954 difatti il quartiere subì uno sventramento tale da renderlo, agli occhi della scrittrice, irriconoscibile. È proprio dalla consapevolezza della distruzione di San Berillo e, di conseguenza, dall’impossibilità di far ritorno nei luoghi della propria giovinezza che nasce Io, Jean Gabin, opera in cui ritrae una Catania gioiosa e piena di vita, una città raccontata attraverso le luci e le ombre che la governano.
ATTENZIONE: da qui in poi troverai spoiler, fermati se non hai terminato la lettura di Io, Jean Gabin!
La prima immagine della Civita che appare in Io, Jean Gabin è in stretta connessione con la figura del divo francese e dei film nei quali egli ha recitato: prendendo in prestito l’immaginario paesaggistico del film Il bandito della casbah, Sapienza definisce il quartiere dov’è nata la sua casbah di lava, dove è libera di addentrarsi coraggiosa1.
La Civita è abitata perlopiù da figure ai margini della società, spesso povere, non istruite, legate a un modo di pensare e di agire arretrato o al di fuori dagli schemi, tuttavia in questo paesaggio umano non mancano ambienti ricchi di stimoli positivi, come il cinema Mirone, l’antro del puparo e le numerose botteghe disseminate tra i vicoli. Si tratta di un luogo variegato e interessante per una bambina attenta e curiosa come la giovane Iuzza, la quale proprio a partire dallo scenario della Civita svilupperà un interesse profondo per le personalità ai margini, disadattate, delle quali sente di far parte2.
I testi autobiografici di Sapienza spesso valicano i confini del genere, infatti è possibile definire Io, Jean Gabin un romanzo di formazione, anzi, lo si può inserire in quel sottogenere del Bildungsroman delle memorie degli spettatori. Uno dei temi principali dell’opera è infatti il cinema, come si evince chiaramente sin dal titolo: Goliarda sveste i panni di bambina qual è, per indossare quelli dell’attore francese Jean Gabin, compiendo un’identificazione totale con il divo cinematografico. Preponderante la presenza di episodi vissuti all’interno della sala cinematografica, dove Iuzza, stampando nello schermo della memoria le immagini dei film, si prepara a recitarli per sé stessa e per i suoi vicini di casa:
Devo rivedermi tutte le pellicole, pensai, buttandomi nel letto-branda, e mi rivoltai contro il muro per riposare dalle fatiche della giornata […]. Rivedere le pellicole di Jean Gabin: sapevo come fare. Chiudendo gli occhi ripassavo una per una tutte le scene davanti allo schermo della memoria che possedevo fortissima.
Interessante notare anche come in questo testo la memoria non sia frammentata, anzi, risulti salda e in costante esercizio, lucida anche quando emerge nella narrazione, per associazione analogica, un ricordo doloroso e appartenente a un tempo passato. Soltanto in un momento la narrazione sembra disgregarsi e ripiombare in una confusione simile a quella di Lettera aperta: accade in un luogo circoscritto del testo, nell’undicesimo capitolo, quando la narrazione di Goliarda bambina si interrompe per far spazio a un ricordo ambientato nel tempo dell’occupazione nazista, accanto alla sua compagna di stanza nel convento romano, Jane3-Jean.
Già, quel quaderno mi seguì fino alla soffitta delle suore francesi di via Gaeta a Roma, mi seguì fino alle parole di Jean, ma non era Gabin, era un’americana rifugiata in quello stesso convento durante l’occupazione nazista. […] Brucia il quaderno fra le mani delicate di Jean, il tempo si dissolve in rivoli di fumo… e io resto senza tempo, con l’impossibilità di contare le ore, di muovermi, di andare avanti o indietro sul mio orologio bloccato a quel maggio 1944 senza ricordi e senza futuro […] Senza ricordi e senza futuro, siamo involucri che vagano per strade deserte.
Io, Jean Gabin si apre all’interno della sala cinematografica dove Goliarda bambina sta guardando Il bandito della casbah con protagonista l’amato divo francese Jean Gabin, la visione viene però disturbata quando appare sullo schermo la diva co-protagonista del film e due spettatrici iniziano a metterne in dubbio la bellezza: Goliarda si infuria e, fuori dalla sala, spintona Concetta e sua madre per il disonore da loro arrecato al personaggio. L’episodio viene scoperto a casa Sapienza dove Iuzza viene rimproverata da entrambi i genitori, ma, mentre il padre sorride e prende alla leggera la bravata di sua figlia, sua madre le intima non solo di scusarsi, ma anche di donare i suoi risparmi a Concetta; le cinque lire conservate dalla bambina però sono state già rubate dalla scaltra sorellastra Musetta, così ha inizio il calvario di Goliarda per guadagnare il denaro necessario. Tuttavia quando riesce a racimolarne un po’ decide di spenderlo per poter andare al cinema a guardare il nuovo film interpretato da Jean Gabin, Il porto delle nebbie, ma, presa dai sensi di colpa per non essersi sdebitata con Concetta, mette insieme velocemente altro denaro e salda il suo debito.
Accanto alla passione verso il cinema e la recitazione, dato che qui la giovane Iuzza sceglie di indossare i panni dell’attore per interpretare sé stessa, compare anche la ricerca di un mestiere, di un’occupazione: Io, Jean Gabin narra un’educazione alle sfide della vita e all’indipendenza economica da parte di una bambina ancora in cerca della propria identità e abbagliata dalle luci del cinematografo. I temi trattati in quest’opera non sono nuovi nella scrittura di Sapienza, tuttavia qui sono osservati attraverso una lente nuova, quella cinematografica: lo stesso vale anche per il tema amoroso.
Molteplici sono i luoghi del testo nei quali l’autrice mostra l’enorme affetto che prova nei confronti della sua famiglia, in particolare verso Licia, Ivanoe, Arminio e zio Nunzio : adesso che è riuscita a mettere in ordine il suo passato e andare avanti grazie alle due opere precedenti, Sapienza si sente libera di dichiarare apertamente l’amore che da sempre ha nutrito verso i suoi cari, non vergognandosene più. Non mancano narrazioni di episodi felici e pieni di tenerezza vissuti assieme a suo padre e manifestazioni d’affetto nei confronti di sua madre, il cui amore però Iuzza sente di doverlo conquistare con fatica4; infine l’amore è oggetto di dialoghi con zio Nunzio e con il commendator Insanguine, dal cui racconto dettagliato la giovane Goliarda cerca di assaporare quel sentimento così nobile e misterioso, soprattutto è oggetto di numerose riflessioni di cui il testo è disseminato:
So cosa perderà il mio Jean, so ormai tutto, eppure attendo con ansia l’ennesimo amore che segnerà la sua fine, se non fosse per questo suo umanissimo bisogno che tutti ci accomuna, poveri, ricchi, fascisti e antifascisti e forse anche i reali. […] Eh sì, l’amore deve essere qualcosa così essenziale alla nostra natura da non poterne fare senza, qualcosa come il pane, l’acqua, il sale… Senza sale l’organismo muore, e in fondo non è grande danno, ma senza amore si diventa assonnati, fragili, avari, larve d’uomo.
Interessante notare come in Io, Jean Gabin Sapienza rifletta sul sentimento amoroso non solo da un punto di vista universale, ma spesso dal punto di vista maschile, precisamente da quello che crede appartenere a Jean Gabin, come dichiara sin dall’incipit: «Io, che con Jean Gabin ho imparato ad amare le donne […]» . Dunque lo sguardo che l’autrice rivolge verso l’universo femminile è plasmato su quello del divo francese, ed è infatti tramite questo sguardo che formula la metafora della donna-mare, presente nell’'incipit e nel dialogo con Ivanoe a proposito della biologia femminile. Emerge in queste pagine anche una certa avversione rispetto al femminismo degli anni Settanta, in particolare dichiara il suo disaccordo rispetto all’immagine della donna forte e mascolina, qui incarnata dal primo ministro inglese5, eppure qualcosa non torna: prova avversione verso le donne che “oscurano” la loro femminilità a vantaggio di una esibizione di caratteristiche tipicamente maschili, allo stesso tempo in questo testo decide chiaramente di identificarsi con un uomo, Jean Gabin. Ecco comparire un elemento che sempre accompagna Goliarda Sapienza: la contraddizione.
– Vedi, Goliarda, il professor Jsaya ha un grande pregio nei confronti di tutti noi piccoli italioti imbastiti di grandi ideali e pensieri abbietti. Non nasconde le sue contraddizioni. Lui le vive e le mostra con coraggio da leone. È questo che lo fa completamente folle e magnifico.
Insomma tutti erano folli per tutti, e io me ne stavo lì seduta sul letto a pensare e pensare con la testa a pezzi fra le mani affondando nei ricordi del passato mentre ci si doveva attenere al presente sempre! Era questa forse la mia contraddizione? Sapere perfettamente quello che mi abbisognava, avere deciso una linea d’azione e nello stesso tempo lasciare che tutto andasse in malora per qualche morso della fame o per una visita dei fascisti?
Nel momento in cui Goliarda decide di accettare le sue contraddizioni e i suoi errori, compie una scelta fondamentale: quella di non vendersi. Infatti Iuzza, dopo aver promesso ai fratelli Bruno di raccontare loro l’ultimo film visto in sala in cambio di due lire, resasi conto della incredibile bellezza e profondità del film guardato, decide di venire meno all’accordo:
Non ti venderò più Jean, non ammorbidirò più la tua immagine e le tue tragedie per far piacere a «loro». Da oggi che sono scesa con te nelle nebbie del tuo fato, o ti racconterò com’eri, bello e atroce, onesto e disonesto, crudele e dolce come un gabbiano e come la vita stessa che è un grande gabbiano vorace ed elegante, o non aprirò più bocca anche a costo di morire di fame nel cantone più buio delle arcate del porto.
Inevitabile il riferimento a ciò che le sta accadendo nel presente con il suo romanzo: Sapienza sembra servirsi di questo episodio anche per poter giustificare il suo rifiuto nei confronti di quegli editori che le hanno chiesto dei tagli e delle modifiche per poter eventualmente pubblicare L’arte della gioia. Non è disposta a vendere sé stessa e la sua arte, per quanto questa scelta costi fatica e dolore.
Cari lettori e care lettrici, è giunto il momento di salutarci: ci ritroviamo il prossimo mese con l’approfondimento dedicato a L’università di Rebibbia.
La giovane Goliarda Sapienza è una bambina libera di uscire e muoversi da sola nel quartiere e in alcuni luoghi specifici, principalmente perché suo padre è molto stimato e ben voluto in città, dunque nessuno avrebbe l’ardire di infastidire «la signorina dell’avvocato», così come la bambina viene appellata dagli abitanti del quartiere.
G. Sapienza, Io, Jean Gabin, p. 93: La Civita la notte, quando tutti i bassi erano chiusi, svegliava i suoi mostri scolpiti in quella pietra affilata e nera d’inferno e cominciava a risuonare tutta di gente, grugniti, fiati lunghi di serpenti, mori, meduse, melusine. Le cento bocche dischiuse di quegli animali mezzo uomo e mezzo cavallo mezzo donna e mezzo serpente mezzo serpente e mezzo uccello agitavano le code e le ali nere producendo un sibilo così terrorizzante che più di una volta si trovava poi la mattina qualche sventurato morto di paura per aver udito quei rumori o aver visto qualche capitello staccarsi dal corpo di un palazzo e venirgli incontro con movimenti sconosciuti. Noi c’eravamo nati, eravamo vaccinati ma loro, quei mezzi catanesi che abitavano fuori nei palazzi di marmo tra i giardini, non potevano entrare nel recinto magico costruito da un diavolone di architetto uscito fresco fresco dalle viscere del Monte insieme alla lava ribollente, e deciso a farsi un piccolo inferno per se stesso e per i suoi simili.
Come narrato ne Il filo di mezzogiorno, durante la guerra, per timore dei rastrellamenti nazisti, Goliarda Sapienza si trasferisce momentaneamente in un convento di suore francesi in via Gaeta: n quel luogo triste e solitario, in cui è costantemente assediata dai morsi della fame e del terrore, una parantesi di gioia è la conoscenza dell’americana Jane, con la quale condivide il dolore della guerra ed evade nei ricordi felici dei luoghi del loro passato individuale.
G. Sapienza, Io, Jean Gabin, pp. 12-13: Davanti alle sue parole mi infurio con me stessa pensando: «È possibile, Iuzza, che tutte le volte ti fai prendere dalla paura, o dall’ansia che sia, quando sai esattamente quello che ti dirà?» Ma poi (sempre mentre lei parla) il ricordo di come anche lui, Gabin, si emoziona quando deve conferire con la donna che ha scelto di amare mi consola un po’. […] Ma per me è diverso, è mia madre, e serrando le braccia al torace per non fare gesti incauti mi stringo a me questo amore che non posso esternare e soffro a piene mani come tutti gli uomini degni di questo nome soffrono per un amore a loro negato, e cioè profondamente, perdutamente ma in silenzio.
Continua infatti l’incipit: […] mi trovo ora con la fotografia di Margaret Thatcher davanti […] e comincio a pensare che qualcosa non è andato per il verso giusto in questi ultimi trent’anni di democrazia. Jean Gabin non ne sapeva niente di lady di ferro, donne poliziotte, soldate e culturiste.